Maniago

il duomo di San Mauro e la chiesa dell'Immacolata Concezione

Maniago

Le origini

Il Duomo di Maniago intitolato a San Mauro, patrono di Parenzo da cui forse derivò il culto, è una tra le più nobili espressioni dell’architettura tardogotica del Friuli La sua attuale costruzione risale al 1488, ma tutto fa pensare che le vicende storiche ad esso connesse abbiano una più lontana origine. La parole “Iovi sacrum”, sacro a Giove, che insieme alla data 1488 si leggono sull’architrave della porta maggiore e che sono state intese soltanto come dotta e umanistica citazione, autorizzano a supporre la presenza di un tempietto pagano in zona: un sacello, forse non dissimile dai molti esistenti nell’antichità in area veneta (uno, ad esempio, si trovava non lontano, alla Santissima di Polcenigo). In seguito alla cristianizzazione del territorio, si sarebbe provveduto ad erigere nello stesso luogo una chiesa, che dovette essere dignitosa e ricca di ornamenti già in epoca longobarda (VIII secolo), come a sufficienza comprovano i frammenti marmorei di ciborio o transenna - senz’altro di riporto - murati sulla facciata della chiesa quattrocentesca. Nulla sappiamo della struttura di quell’edificio, del suo eventuale sviluppo architettonico, di modifiche apportate. Pare comunque certo che nella seconda metà del Trecento sia stato abbellito con affreschi, piccoli frammenti dei quali sono stati murati nella costruzione del 1488

Approfondimento

La prima datazione certa relativa all’antico edificio è quella che risale al 12 gennaio 981, allorché l’imperatore Ottone II donò al patriarca di Aquileia Rodoaldo il monte di Maniago e la pieve di San Mauro. Prima pieve ad essere ricordata come tale in diocesi di Concordia, esercitava i suoi poteri sul territorio dal Meduna al Cellina e da lei dipendevano molte chiese filiali. Il fatto che nella chiesa di San Mauro il capitolo tenesse i placiti di cristianità fa pensare ad un edificio di un certo prestigio.

La storia della chiesa

Il Cinquecento

Nel 1488 la chiesa fu riedificata - nella maniera in cui oggi si vede - senza dubbio più ampia e spaziosa della precedente per poter soddisfare alle accresciute esigenze del culto. Nella costruzione si seguirono solo in parte i dettami della moda coeva, limitatamente agli elementi decorativi tipici del gotico veneziano che ne infiorano la facciata: ché per il resto si tenne piuttosto conto di quella spiritualità severa e spoglia che in epoca medioevale aveva informato le costruzioni gotiche francescane del Friuli. Ne derivò una chiesa ad unica navata, con copertura a capriate lignee e tre cappelle absidali di cui la maggiore, con volta a crociera e con altare inizialmente dedicato a San Mauro (e in seguito alla Santissima Trinità, con spostamento della pala del titolare), venne ultimata nel 1506; le altre due, probabilmente, precedono di qualche anno, visto che nella cappella di S. Giovanni è murata la lastra tombale di Antonio Nascimbeni del 1503). Il progetto iniziale non prevedeva la costruzione di cappelle laterali, ma nel 1508 pre’ Lorenzo Cosmi fece erigere quella della Madonna nella parete destra della navata: iniziata nel 1508, fu ultimata nel 1513. E’ del 1551 la costruzione della prima sacrestia, la cui porta d’accesso si apre tuttora sul fianco sinistro. Frattanto la chiesa andava arricchendosi di altari, due dei quali (quelli del Santissimo e della Trinità) appoggiati a colonne, vennero fatti demolire da mons. Nores nel 1584.

Il Sei e Settecento

Nel XVII secolo, in ossequio alle nuove istanze culturali e ideologiche di ordine controriformista, si intese dare un assetto ordinato e razionale all’interno: nel 1620 venne pertanto ristretto l’altare secondo le prescrizioni del sinodo, nel 1652 fu costruita la cappella di San Mauro, con lo stesso stile di quella della Madonna. In conseguenza delle avvenute modifiche si rese necessario riformare, nel 1667, l’altare maggiore che, originariamente intitolato a San Mauro, venne nell’occasione dedicato alla Santissima Trinità. Nel 1689, per la munificenza dei signori di Maniago, venne costruito un altare con il titolo di Santa Maria Elisabetta e creata, per accoglierlo, la cappella della Visitazione, cui farà riscontro, di lì a poco, la cappella di S. Rocco che le sta a fronte. Nel generale fervore di iniziative si inserisce, nel 1693, la costruzione dell’altar maggiore con tabernacolo, ad opera del veneziano Alberto Bettanelli. Altri lavori di poco conto si effettuarono negli anni seguenti (pavimentazione della chiesa e della cappella della Visitazione), mentre all’esterno l’insieme scultoreo-architettonico dei due portali d’accesso e piramidi eseguiti nel 1700 dal tagliapietra Giacomo Conte conferirono all’ambiente quella sistemazione singolare, quasi scenografica, che tuttora piacevolmente introduce alla visita del monumento. Nel 1758 venne poi fabbricata la grande sagrestia.

Approfondimento

Intorno alla fine dell’Ottocento si cominciò a pensare all’ingrandimento della parrocchiale o addirittura alla costruzione di un edificio del tutto nuovo. Respinti i progetti di ristrutturazione avanzati dall’architetto veneziano Pietro Saccardo (che prevedeva l’allargamento del coro e delle due cappelle di testa, il restauro del resto della fabbrica e l’abbellimento della facciata) e dell’architetto pure veneziano Federico Berchet (1830-1909), che pensava ad un prolungamento del vecchio edificio in direzione est, con l’abbattimento del coro, l’aggiunta di due cappelle e la riduzione delle precedenti a stile gotico, si decise di costruire, sull’area del cimitero abbandonato, un nuovo tempio, la cui prima pietra venne posta in data 10 ottobre 1901. Del lavoro venne incaricato Pietro Saccardo (1830-1903), allora proto della Basilica di San Marco a Venezia, che però rinunciò assicurando tuttavia la propria assistenza e suggerendo un tipo di chiesa quale quella di Ostiglia da lui progettata su commissione dell’amico vescovo Giuseppe Sarto (poi Papa Pio X), un edificio di grande dimensione e di forte impatto visivo, con facciata a salienti e l’interno a tre navate. Ma il sopralluogo nella cittadina effettuato da un membro della commissione, indusse a ripiegare sul più semplice e rispondente modello delle parrocchiali di Buja, o quello delle chiese di Fossalta di Portogruaro e San Giovanni di Casarsa. Ci si orientò dunque, definitivamente, sulla costruzione di una nuova chiesa in stile neogotico. I ritardi e gli errori nella stesura del progetto esecutivo, affidato in un primo momento al geometra udinese Luigi Taddio (1861-1936), ne determinarono, su consiglio del Saccardo, l’assegnazione all’ingegnere veneziano Vincenzo Rinaldo (1867-1927) - autore tra l’altro della chiesa di San Fior nel Trevigiano - che nel 1906 aveva steso una accurata relazione sulla vecchia chiesa di San Mauro evidenziandone il pessimo stato di conservazione. Al Rinaldo appartiene il modello ligneo (1906), tuttora conservato, dell’edificio che si sarebbe dovuto costruire e che invece rimase soltanto nelle intenzioni. Nel 1942 si riprese a pensare ad un ampliamento del vecchio San Mauro; il disegno firmato dall’ingegner Leo (Leone Osvaldo) Girolami da Fanna (1894-1951) contempla la trasformazione dell’aula a tre navate con l’innesto di un nuovo corpo all’altezza delle absidi esistenti, in modo da ottenere una pianta a croce latina e lo sviluppo di un deambulatorio. Una seconda redazione dello stesso Girolami (1943) più semplificata, al pari della prima viene bocciata dal Ministero e dalla Soprintendenza. Tutti questi progetti rimasero per fortuna… progetti, per cui oggi il Duomo mantiene la sua struttura quattrocentesca. Andò invece purtroppo in porto l’operazione di “restauro” effettuata nel 1948-1952: scrive Paolo Lino Zovatto che l’operazione “necessaria e ben riuscita, ha solo in parte mutato l’aspetto” del duomo con la costruzione di un’abside semicircolare alta e profonda: “all’occhio attento non sfugge la novità, che ha determinato certamente grandi vantaggi di carattere liturgico, a parziale danno dell’unità architettonica”. Il fatto è che i “vantaggi” sono dubbi, mentre il danno arrecato dall’immotivato e illogico ampliamento è evidente. 

Il campanile

Davanti alla chiesa sorge, e si innalza per 36 metri il massiccio campanile, eretto dopo il 1488, ultimato nel giro di qualche lustro e restaurato già nel 1534 da maestro Matteo Carneo: quadrato, con robusta cella campanaria in pietra viva ed una serie di quattro bifore. La copertura iniziale probabilmente era a pigna in tavole (come fu, ad esempio, del campanile della chiesa del Castello di Udine), ma il 17 novembre 1575 un terremoto squassò il manufatto e fece precipitare le campane, per cui si rese necessario un restauro, deciso nel 1581. Nel 1650 venne inserito l’orologio e nel 1652 si rifece la pigna, nuovamente atterrata nel 1692 essendo stata danneggiata da un fulmine.

Nel 1708 il campanile prese il suo aspetto definitivo: l’ottagono sopra la cella venne rivestito di lamine di piombo ed al sommo si collocò  un angelo secondo una consuetudine abbastanza frequente in Friuli (Grado, Udine, Artegna, Sacile ecc.). La prima metà del Settecento trascorse tra rifacimenti (balaustra, 1718), restauri (1728), problemi connessi con la campana e soprattutto con l’orologio la cui costruzione fu affidata, il 26 giugno 1745, a Giacomo e Osvaldo q. Antonio Cappellari di Pesariis, patria già allora di esperti orologiai.

Nel 1755, il 28 luglio, un fulmine colpì la cupola liquefacendo la copertura in piombo ed incenerendo l’angelo. Fu così giocoforza deliberare il rifacimento della statua la cui esecuzione fu commissionata ai fratelli Vincenzo e Tiziano Vallan di Maniago, scultori tanto esperti nell’arte fabbrile da essere chiamati a Rovigno e a Parenzo (loro la statua girevole di Sant’Eufemia , in rame sbalzato, che ancor oggi dall’alto domina la cittadina istriana), a Nogaredo di Corno (per realizzare nel 1775 l’angelo girevole) e a Udine per eseguire nel 1777 la statua dell’angelo che sormonta il campanile del castello di Udine e costituisce il simbolo della città e un po’ di tutto il Friuli. Purtroppo nel 1892 l’angelo del campanile di Maniago fu levato per lasciar posto ad un parafulmine.

Nel 1796 si acquistarono le campane dal fonditore veneziano Domenico Canciani, poi ci si servì dei fonditori udinesi Giovanni Battista De Poli (1860) e Francesco Broili (1905), ma nel 1918 le campane vennero requisite dai tedeschi. Toccò in seguito alla ditta G.B. De Poli la rifusione del concerto. Il terremoto del 1976 lesionò gravemente il campanile, facendo cadere tutto il tamburo ottagonale, in seguito ricostruito.

La facciata

Elemento caratteristico del duomo maniaghese è, nella facciata a capanna dalle semplici ma armoniche linee architettoniche, l’ampio rosone che ripete puntualmente l’invenzione ornamentale del duomo di Muggia e della chiesa di Sant’ Antonio abate di San Daniele, di pochi anni precedenti. Uno stupendo rosone, di essenziale eleganza e di serena bellezza, che qualifica la facciata e coglie tutti i riflessi del cielo per rinchiuderli in un gioco continuo di archi e di colonne, di intrecci, di ricami e di finissime tessiture di pietra.

Approfondimento

Il rosone che domina la facciata si compone di diciotto archetti trilobi che incrociandosi creano dei pennacchi con foglia triloba ed è contornato da una robusta cornice con bordo esterno dentellato: motivo, quest’ultimo, che si ritrova anche nello slanciato portale strombato, finemente ornato con due colonnine tortili terminanti con capitelli corinzi tra cui occhieggiano due testine. 

Il portale ricorda analoghi esempi di San Daniele del Friuli e Cividale, e come quelli può essere riferito ad un abile lapicida lombardo-veneto, cui va assegnato anche, al vertice, il bel bassorilievo con il Padre Eterno benedicente ed angioletti, di buona fattura, impaginato con proprietà, morbido nel modellato, pezzo tipico della statuaria del periodo in Friuli, ripetuto più volte (anche se spesso volgarizzato) dai lapicidi lombardi operanti in Friuli tra Quattro e Cinquecento.

Approfondimento

Nella lunetta del portale è visibile un affresco, di modesta qualità, con il Cristo portacroce; sull’architrave corre la scritta che ricorda la data di costruzione dell’edificio e la sua dedicazione a San Mauro: “ANNO SALVTIS MCCCCLXXXVIII OLYMPIADE CCCCLXXXVIII.III / TEMPLVM HOC MANIACI COLLATO EX ERE REPENSVM / IDQVE JOVI SACRVM OCTAVO POSVERE KALENDAS / OCTOBRES. TITVLVM ALMA TENET CVSTODIA MAVRI”. 

Approfondimento

Nella facciata erano incastonati, come materiale di riporto, tre pezzi scultorei rappresentanti rispettivamente un pavone e cinque altri uccelli, un cervo, un motivo decorativo a intreccio. Databili all’VIII secolo, con ogni probabilità debbono ritenersi resti di un pluteo, di una transenna, fors’anche di un ciborio (come sembrerebbe suggerire il frammento di lastra con pavone nel quale è visibile un tratto di cordonatura curvilinea), già esistenti nella precedente chiesa di San Mauro: ulteriore conferma dell’antica esistenza di un importante centro di cristianità in Maniago e dei suoi legami di cultura e di fede con località dell’alto Adriatico. Nel rilievo con pavone e altri cinque uccelli piacciono soprattutto la fresca vena inventiva, lo sciolto e agile snodarsi della linea pur nella tradizionale stilizzazione delle forme, l’insistito grafismo che solca le superfici. Di qualche pregio anche il cervo che bruca una palmetta (altrimenti considerato come “un leone tra fogliame e palmetta” oppure “un quadrupede che bruca un arbusto”, oppure ancora “un agnello”) che appare in una lastra divisa in due parti, una delle quali – la destra – con rilievo scalpellato. Il terzo frammento marmoreo, di piccole dimensioni, è parte di un motivo a intreccio di tipologia  alquanto comune (molti se ne vedono tra Cividale ed Aquileia) ma proprio per questo utile al recupero di una datazione per tutti e tre i rilievi.

L'ingresso

L'interno della chiesa

L’interno, ad unica navata, con una copertura a capriate (e in parte a carena di nave, nel tratto di raccordo soffitto-pareti) e tre cappelle absidali di cui la centrale più ampia, denuncia chiaramente la sua appartenenza a quel tipo di architettura gotica che i francescani avevano introdotto anche in Friuli, dov’erano giunti nella prima metà del XIII secolo. Un’architettura monumentale, pur nel rispetto dei canoni di semplicità e povertà imposti dalla regola, sensibilmente alterata dalla costruzione delle quattro grandi cappelle laterali avvenuta secondo i criteri di ordine e di simmetria raccomandati da san Carlo Borromeo: tutte le cappelle minori siano della stessa altezza, larghezza, profondità. Pertanto, pur appartenendo esse ad epoche diverse, sono tutte esemplate, nello schema compositivo, sulla cappella della Madonna che risale al 1513 e che presenta una struttura architettonica a parallelepipedo, la cui parte anteriore (alti dadi con lisce colonne su cui si innesta il grande arcone con volta a botte) è lievemente sporgente dalle pareti perimetrali in cui si addentra l’invaso. La perfetta armonia e il nitore delle forme, la sobrietà dell’ornato costituito da lineari cornici e profilature, sono testimonianza di quel gusto classico rinascimentale presente anche in altri edifici sacri del territorio.

L'acquasantiera

Entrati in chiesa, si incontra un’acquasantiera cinquecentesca di fattura estremamente semplice, con un debole motivo a fogliami ed un uccelletto in bassorilievo sulla coppa.

La pala della Trinità

All’inizio della parete di destra è posta una pala d’altare con la Trinità adorata da Sant’Antonio da Padova, firmata e datata 1668 da Isacco Fischer, pittore di Augsburg (1628 circa-1706) che in Friuli molto lavorò per alcune nobili famiglie, gli Altan di San Vito al Tagliamento ad esempio o i conti di Maniago. La Trinità, che pare ispirarsi al quadro dipinto da Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone, nel duomo di San Daniele del Friuli, era già stata realizzata dal Fischer 1665 per la cappella dei conti d’Attimis-Maniago a Buttrio. Composizione affollata, nei toni cupi e nelle severe figure tradisce l’origine ultramontana dell’artista.

La cappella di San Rocco – Il fonte battesimale

Lungo la parete destra si trova la Cappella di San Rocco nella quale è ubicato il fonte battesimale datato 1549, opera di anonimo maestro medunese che trova nei putti reggenti la coppa il motivo maggiore di originalità: putti robusti, tozzi, quasi schiacciati dal peso che debbono sostenere, privi di quell’eleganza e di quell’euritmia che sono invece presenti in opere di eguale soggetto dovute a Giovanni Antonio Pilacorte, Benedetto degli Astori o Carlo da Carona (si vedano, ad esempio, i fonti battesimali o le acquasantiere di Beano, Sequals, Ragogna, Torre di Pordenone, Cinto Caomaggiore, Tesis, Trivignano o Coseano). Per un malinteso senso del pudore, nel Seicento i putti erano stati in parte mutilati, in parte coperti con un perizoma.

Il fastoso altare, in legno intagliato e dorato, è dovuto alla bottega di Giovanni (Battista) Auregne (sec. XVII): contiene una pala raffigurante i Santi Valentino, Rocco e Sebastiano in cui, oltre alla calibrata struttura e alla sicura padronanza del colore va rilevata, nella centina, la libera versione dell’Estasi di San Francesco del Caravaggio già nella chiesa di San Giacomo a Fagagna ed ora esposta nei Civici musei di Udine. E’ attribuita al pittore e canonico udinese Giuseppe Giovanni Cosattini (1625-1699).

Approfondimento

Il canonico udinese Giuseppe Giovanni Cosattini (1625-1699), seguace del pittore Alessandro Varotari, detto il Padovanino, ma anche di Palma il Giovane, è documentato come pittore a partire dal 1659. Eseguì numerosi quadri di soggetto sacro per le chiese del Friuli, ma è soprattutto noto per aver operato a Vienna dove, nel 1671, fu nominato “Pittore di corte” da Eleonora imperatrice d’Austria. 

Il Trittico

Più avanti è collocato un trittico in cui sono raffigurate, a tempera su tavola, nei due scomparti laterali Santa Lucia e Sant’Apollonia, a piena figura, con nelle mani la palma e lo strumento del martirio (gli occhi per Lucia, le tenaglie per Apollonia) e nello scomparto centrale, diviso in due da una piccola trabeazione, in basso la Dormitio Virginis, cioè la morte della Vergine attorniata dai discepoli, vivace composizione dai colori leggeri e cantanti: pur rovinati, i piacevoli dipinti sono tradizionalmente attribuiti al pittore, intagliatore e miniatore udinese Giovanni de Cramariis.

Approfondimento

Giovanni de Cramariis visse dal 1450 circa al 1507, cognato di Pellegrino da San Daniele del quale aveva sposato la sorella Anna, e padre di Nicodemo, a sua volta pittore, documentato dal 1508 al 1533. Ignota la sua formazione pittorica: i primi documenti lo vedono infatti già affermato artista, impegnato tra il 1470 ed il 1473 - insieme con Girolamo da Cremona, Liberale da Verona e altri - a Siena, nell’esecuzione di miniature per i mirabili Corali del duomo. Fu anche autore, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, delle pregevoli miniature di cinque Graduali e di un Antifonario del duomo di Spilimbergo (19 grandi miniature con figure oltre a numerosissime iniziali). E proprio con il primo gruppo di miniature eseguite per Spilimbergo sono evidenti le connessioni stilistiche e iconografiche della Dormitio Virginis di Maniago. Di recente, però, per la vicinanza dei dipinti maniaghesi alle portelle dell’altare della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo di Arzenutto, è stata avanzata l’ipotesi che essi appartengano alla mano di Pietro da San Vito. 

La parte superiore dello scomparto centrale contiene, sullo sfondo di un dipinto con due angeli che reggono un drappo rosso damascato, e che paiono della stessa mano delle altre pitture, una lignea Madonna con Bambino che, per la bamboleggiante espressione della Vergine e il fitto piegheggiare delle vesti, può essere attribuita ad intagliatore friulano della seconda metà del Trecento: non è quindi azzardato ipotizzare che nella realizzazione del trittico si sia tenuto conto anche dell’adeguato inserimento della scultura lignea al suo interno.

L'adorazione dei Magi

Segue un dipinto di grande dimensione raffigurante l’Adorazione dei Magi che in origine costituiva, insieme con le tele dello Sposalizio della Vergine e della Circoncisione collocate nella parete di fronte, le portelle dell’organo. La sua esecuzione, nel 1701-1702, si deve al pittore venzonese Lucio (o Lucilio) Candido (1651 –1723), che copiò quanto eseguito da Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone, nel 1527 per il duomo di Venzone (dipinto perduto).

Approfondimento

È interessante la storia che sta a monte di questo lavoro eseguito nel 1701-1702 dal pittore venzonese Lucio (o Lucilio) Candido (1651 –1723). Questi i fatti: nel 1527 il pittore Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone, venne incaricato di dipingere le portelle di un’ancona lignea per la chiesa dell’Ospedale di Venzone: lavoro composto da tre tele che vennero poste in loco nei primi mesi del 1533. Raffiguravano lo Sposalizio della Vergine, l’Adorazione dei Magi e la Circoncisione e probabilmente vennero in seguito utilizzate come portelle dell’organo del duomo. Passarono in seguito alle Monache Agostiniane di Venzone, che nel 1772 le vendettero e di esse non si è poi saputo più niente. I dipinti del Pordenone dovettero riscuotere l’ammirazione di alcuni artisti friulani, che in tempi diversi li copiarono o imitarono. Primo fra i “copisti” fu Pomponio Amalteo, genero del Pordenone e continuatore della sua opera: eseguì copie fedelissime dello Sposalizio della Vergine e della Circoncisione per il duomo di San Daniele (1569) e per quello di Udine. Alla fine del Settecento, poi, il conte Variente Percoto, udinese, incisore “dilettante” e zio della più celebre scrittrice Caterina Percoto, trasse alcune incisioni degli stessi soggetti inserendole nel libricino Otia ruris. All’Adorazione dei Magi si ispirarono lo stesso Pomponio Amalteo (affresco in Santa Maria dei Battuti a San Vito al Tagliamento, 1535), Giuseppe Furnio (affresco in Sant’ Elena a Luincis di Ovaro, 1552) e Giovanni Maria Zaffoni detto il Calderari (affresco in San Rocco a Montereale Valcellina,1560-63).

Approfondimento

Fu Lucio Candido, pittore di Venzone (1651 –1723), che quindi aveva avuto modo di guardare e studiare attentamente le pitture dell’organo del duomo della sua città per trarne comoda copia, a servirsi più degli altri dell’invenzione del Pordenone: a lui si devono infatti i dipinti dello Sposalizio della Vergine e della Circoncisione che abbelliscono la cappella gentilizia della villa de’ Claricini a Bottenicco di Moimacco e la chiesa della Madonna di Loreto a Tarvisio, quello dello Sposalizio che si conserva nel Monastero delle Orsoline di Gorizia (proveniente dal monastero di Cividale del Friuli) ed anche in collezione privata pordenonese, quello dell’Adorazione dei Magi (due copie in due differenti collezioni private udinesi). Sua è, infine, la copia dell’intero ciclo pordenonesco, eseguito per il duomo di Maniago. Abile copista (nella sua produzione abbondano i dipinti che si rifanno a stampe di Tiziano e di Paolo Farinati, del Palma, del Sadeler, di Martin de Voos), il Candido non è pittore suadente, in quanto tende a irrigidire figure e situazioni, togliendo ogni morbidezza alla sua  pennellata che indulge nell’uso di toni freddi, senza mai concedersi momenti di lirico abbandono, di partecipazione emotiva all’evento. Pur formalmente corretti nella riproduzione dell’illustre modello venzonese e nel colore, cui il recente restauro ha tolto la patina del tempo, soprattutto nelle tonalità azzurre di vesti, drappi e copricapo, mostrano quel senso di staticità che accomuna uomini e cose ed è cifra portante nella sua pittura.

La cappella di San Mauro

Più avanti si apre la Cappella di San Mauro eseguita nella prima metà del Seicento da Zuane de Adamo, capomastro originario di Lugano e da Andrea Podaro, tagliapietra di San Daniele del Friuli. Sui capitelli di due colonne poggianti su un alto dado, si imposta un robusto arcone di tipo bramantesco nei cui pennacchi sono evidenziati due tondi. Nel sottarco a cassettoni, al centro del quale campeggia lo stemma dei conti di Maniago (attribuito al Podaro) compare anche, in bassorilievo, il ritratto di profilo di un committente, rozzo lavoro di un lapicida medunese.

L’altare, in pietra bicroma, piuttosto semplice nella struttura architettonica, con terminazione ad arco a sesto ribassato su cui poggiano due grandi angeli affrontati su di un cantaro, contiene una pala raffigurante la Madonna in trono con Bambino e i santi Mauro, opera del cadorino Tommaso Vecellio (1567 – 1629), figlio di Graziano Vecellio e nipote di Marco cui in passato la pala è stata attribuita.

Approfondimento

Già contenuta in un altare ligneo e qui trasferita intorno alla metà del Seicento, la pala raffigura la Madonna in trono con Bambino e i santi Mauro, Osvaldo e Urbano. Solennemente firmata su un cartellino in basso “THOMAS VECELLLI(VS) / CADVBRIENSIS PINX(IT) / MDCXXV” costituisce, come è stato scritto, un coacervo di citazioni dei Vecellio cinquecenteschi Francesco e Cesare. Mostra le limitate capacità pittoriche di questo epigono della dinastia vecelliana, accentuate dal cattivo stato di conservazione in cui l’opera si trova sia perché ampliata per essere adattata ad un altare marmoreo, sia per le totale ridipintura effettuata da Luigi Andreuzzi nel 1860. Restaurata, per quanto possibile, nel 1981, presenta figure statiche e dure nell’espressione, discutibile impaginazione, eccetera. Certamente, tuttavia, da un discendente dei Vecellio ci si poteva aspettare qualcosa di più di un’opera così modesta sia nella forma che nel colore.

Ai lati dell’altare, due statue di bella fattura, in legno laccato di bianco, raffiguranti sante martiri (Lucia e Agata?).

L'acquasantiera

Davanti alla cappella, una ben proporzionata acquasantiera databile al 1510 circa, gradevole per le profonde scanalature ed i festoni in rilievo sul fusto, e per il fregio con girali che corre nella parte inferiore della coppa.

L'abside di sinistra

Nell’abside di sinistra sono esposti alcuni pannelli con frammenti di affreschi rovinatissimi raffiguranti cherubini (1801), rinvenuti nella volta della Cappella del Rosario. Altri due frammenti di affreschi con teste di santi, attribuiti al pittore Olvardino da Maniago (ca.1390), resti della decorazione della prima fabbrica del duomo, già murati come materiale di riporto sopra l’arco dell’abside dell’edificio attuale, sono stati depositati presso il Museo diocesano d’arte sacra di Pordenone.

All’interno dell’abside, altare del Rosario (ca. 1628), in legno intagliato e dorato, dalle sobrie lignee tardo rinascimentali, attribuito a Giovani Auregne (not. 1630-1675), intagliatore di Cividale di Belluno. Lungo la base reca la scritta “Anno Domini 16[…] QVESTA OPERA FV FATTA ESSenDO PiovaNO IL ReverenDO FRAncesCO FABRIS. PROCVRATORI Miser DANIEL BRANDISIO et Miser DOMeniCO De VITORI. ProcuratorE Miser ZVAn DANIEL SBARAGLIO”. Contiene una pala raffigurante la Madonna del Rosario, databile al 1625 e dovuta a Tommaso Vecellio, che qui “copia” una pala di simile soggetto eseguita da Orazio Vecellio nella chiesa di S. Maria nascente a Pieve di Cadore. Originali sono invece i quindici tondi con i Misteri del Rosario, dalla fresca vena narrativa, disposti a corona intorno alla figura della Madonna.

L'abside centrale

L'altare maggiore

Nell’abside centrale, l’altar maggiore con tabernacolo è opera del veneziano Alberto Bettanelli (1693): lavoro non eccezionale ma gradevole anche per l’uso di marmi policromi (il Bettanelli opera a tarsia marmorea anche nell’elegante cupolino). Sormonta l’altare un Crocifisso ligneo di buona fattura, dovuto ad ignoto intagliatore friulano del XVI secolo.

Approfondimento

Nella pala di Pomponio Amalteo sono rappresentati il Redentore in gloria e i santi Giovanni Battista, Giovanni evangelista, Giuseppe, Pietro e Giacomo apostolo; nella predellina invece, con segno guizzante e rapida stesura cromatica, tre storie di piccola dimensione relative alla vita di San Giovanni Battista (Nascita, Battesimo di Cristo, Decollazione). Forse un po’ troppo affollata, com’è del resto abitudine del pittore, ma correttamente impaginata, la pala è di notevole impatto visivo. Il Redentore benedicente, assiso su soffici nubi e attorniato da angeli, è figura impostata con fare largo tanto da polarizzare l’attenzione dell’osservatore. Realizzati con sicurezza di mano, scioltezza di pennellata ed esuberanza cromatica sono i santi, individualizzati sia negli attributi che nelle piacevoli sembianze dei volti. Dà respiro all’intera composizione il largo, sereno paesaggio che compare alle spalle del gruppo; in alto, lontano, le possenti mura del castello di Maniago caratterizzano il quadro in senso locale. Condotte con fare veloce ed essenziale le figurine che animano i tre inserti della predellina con storie della vita del Battista dal tono piacevolmente narrativo. 

L'organo

Dietro l’altar maggiore è sistemato l’organo, entro un cassone in legno sormontato da 35 canne di facciata in zinco lucidato. Ricostruito nel 1952 dalla ditta Beniamino Zanin di Codroipo e restaurato dopo il terremoto del 1976 dalla ditta Gustavo Zanin, sostituisce l’antico, imponente organo del 1694, in origine collocato sopra il portale d’ingresso della chiesa ed arricchito con le portelle e la cantoria dipinte da Lucio Candido, organo che venne smontato nel 1948.

Gli affreschi

La volta dell’abside era stata affrescata da Pomponio Amalteo, pittore di San Vito al Tagliamento, tra il 1570 ed il 1572, con mezze figure di Profeti entro cornici ovali nel sottarco e nelle quattro vele la tradizionale raffigurazione a coppie degli Evangelisti e Padri della Chiesa, la Nascita di Cristo, l’Esaltazione della Croce, la Resurrezione e il Cristo Giudice. Ciclo d’affreschi deperito nel tempo e quasi perso per il lavaggio, le ridipinture e da ultimo le infiltrazioni d’acqua. Il recente, particolare restauro cui è stato sottoposto, ha salvato le poche parti originarie e ripristinato le parti perdute grazie all’aiuto del prezioso materiale fotografico degli archivi storici.

L'abside di destra

Al centro dell’abside di destra (nella cui volta recenti restauri hanno rimesso in luce un gradevole affresco del primo Ottocento raffigurante l’Agnus Dei e angioletti, dovuto forse al pittore Giacomo Pauletta), splendido altare del 1558, in cui è inserita una pala di Pomponio Amalteo, in legno dorato con decorazioni a pastiglia, l’altare pare uscito dalla bottega stessa dell’Amalteo: era infatti  frequente che i pittori provvedessero anche alla “cornice”. La struttura, estremamente sobria nei racemi che avviluppano le colonne e nelle decorazioni di capitelli, architrave e timpano, richiama il coevo intaglio friulano. Orecchie e acroterio, con l’arma ormai invisibile dei conti di Maniago sono aggiunte di epoca posteriore e di fattura più grossolana, così come posteriore (ca. 1640) è il dossale - negli stipiti del quale sono figurati due angeli dalle braccia conserte – attribuibile all’intagliatore bellunese Giovanni (Battista) Auregne.

La cappella della Madonna

La Cappella della Madonna risale al 1513 (fu fatta costruire a proprie spese, come recita la scritta su uno degli alti dadi che sostengono le colonne, da pre’ Lorenzo Cosmo da Portogruaro) ed è quindi la più antica della chiesa. All’interno, l’elegante altare di San Vincenzo Ferreri, senza dubbio il più pregevole tra quanti la chiesa possiede, consacrato nel 1765 e attribuibile a maestranze friulane. Tutto in marmo bianco, è reso fastoso dalla ricca ornamentazione del fastigio, con cornici sagomate e ben nove angeli dal modellato finissimo, di leggerezza pittorica. Contiene un dipinto raffigurante San Vincenzo Ferreri e i santi Pietro d’Alcantara e Osvaldo, firmato dal veneziano Giuseppe de’ Gobbis (ca 1730-1787), che qui sembra ispirarsi ad un quadro del Piazzetta ai Gesuati di Venezia. Composizione teatrale, pietistica, vede il santo domenicano, al centro, in abito bianco, con la fiamma sopra la testa, volgere lo sguardo verso un angelo che tiene un giglio ed una tromba in mano. Ai suoi lati, Pietro d’Alcantara con il saio e la croce e Osvaldo inginocchiato con la palma del martirio.

Sulla parete, le due tele di Lucio Candido con lo Sposalizio della Vergine  e la Circoncisione di cui si è già detto. Davanti alla cappella un’acquasantiera, ben proporzionata ma del tutto priva di decorazioni, probabilmente della metà del sec. XVI.