Il Duomo di Valvasone

Valvasone e le sue antiche chiese

Il Duomo di Valvasone

Valvasone e le sue antiche chiese

Situato in una zona nevralgica della pianura friulana, a ridosso di un guado del Tagliamento, su di una via che fin dall’antichità portava, dalla Meduna, verso l’Austria, Valvasone appare ancora oggi caratterizzata dalle trasformazioni che si sono succedute dal XIII al XVI secolo, espressioni del periodo certamente più significativo della sua lunga storia.

Approfondimento

Il centro urbano che ora conosciamo si è lentamente sviluppato attorno al castello, la cui prima testimonianza risale al 1206, quand’era abitato da una famiglia imparentata con i Sbroiavacca che amministrava, per conto dei patriarchi di Aquileia, un territorio assai vasto posto sulle due rive del fiume. 

Questi primi signori del luogo, a seguito delle guerre per il potere locale che si sono sviluppate in Friuli nella seconda metà del Duecento, furono sostituiti nel 1268 da Walterpertoldo di Spilimbergo, cui subentrò nel 1292, per volontà del patriarca Raimondo della Torre, Simone di Cuccagna, dando così vita al casato che prese il nome di Valvason-Cuccagna. 

Alla fine del XIII secolo nei pressi del maniero si creò un borgo abitato, attorno al quale fu costruita una cinta muraria (“cortina”), creando quindi una prima elementare organizzazione urbana, che faceva perno su di un ampio spiazzo antistante l’edificio fortificato. Al di fuori di tale “cortina” era nel frattempo sorta la chiesa di Santa Maria delle Grazie e Giovanni (Battista), poi ristrutturata tra il 1330 e il 1350. allora dipendente, per quanto concerneva la giurisdizione religiosa, dalla pieve di Cosa (ovvero di San Giorgio della Richinvelda), che in seguito, con il distacco dalla matrice nel 1355, divenne la prima sede parrocchiale di Valvasone (al luogo di culto fu poi annesso un convento servita; divenuto oggi casa canonicale).

La storia del Duomo

In concomitanza con l’elevazione di Valvasone a sede parrocchiale nel 1335, evento che certifica l’elevato ruolo politico ormai assunto dai nobili locali, prese avvio, per volontà comitale, un’azione di ampliamento del centro cittadino, da cui deriva la costruzione di un nuovo perimetro murario, entro il quale trovarono posto abitazioni e luoghi di commercio. Per quanto riguarda l’edilizia religiosa si deve registrare la costruzione di una nuova chiesa, dedicata a San Giacomo Apostolo (nella “Casa della pieve”, ora edificio ex Posta, sul fianco settentrionale del duomo), mentre sono avviati dei lavori di ristrutturazione per Santa Maria e Giovanni (ormai assunta al rango di chiesa parrocchiale), che ancora restava fuori dalle mura, vicino alla quale si struttura un ospedale per il ricovero dei viandanti, con annessa cappella.

Quasi un secolo dopo, tra il 1440 e il 1500, avrà luogo l’ultimo grande intervento sul tessuto urbano, con l’edificazione di una terza e ultima cerchia di mura, che includeva il borgo più esterno, l’ospedale e la chiesa parrocchiale, la quale di li a poco dovrà cedere il titolo ad una nuova costruzione: il duomo.

Il Duomo e la Sacra Tovaglia

Il duomo di Valvasone sorge all’interno della seconda “cortina”, nella zona più centrale della cittadina, caratterizzata da edifici porticati che fanno da suggestiva cornice al luogo sacro, lungo un’asse che congiunge il castello alla strada che scende dal Meduna - la via principale e che ha dato vita al primitivo insediamento - che passa attraverso una porta collocata proprio di fronte al rinnovato centro della vita spirituale valvasonese.

Stando alla tradizione le origini del duomo vanno comunque ricercate al di fuori delle mura del borgo medievale: infatti l’evento che determina la sua nascita, il titolo e ne segna tutta la storia è collocato a Gruaro lungo la roggia Versiola, dove nel 1294 (ma più verosimilmente nel 1394) una pia donna, intenta a lavare una tovaglia proveniente dalla vicina chiesa di San Giusto, avrebbe notato che da una particola consacrata, negligentemente dimenticata nel lino da un dubbioso officiante, sgorgava del sangue che segnava indelebilmente il tessuto.

Approfondimento

Il fatto prodigioso, da affiancare a numerosi simili accadimenti particolarmente diffusi in epoca tardomedievale e che in questo caso appare assai vicino al celebre miracolo di Bolsena del 1263, sempre seguendo la consuetudine, fece presto nascere una contesa sul possesso della preziosa reliquia eucaristica: il parroco di Gruaro desiderava conservarla nella propria chiesa, il vescovo di Concordia l’avrebbe voluta nella cattedrale e, infine, anche i conti di Valvasone, all’epoca del miracolo giuspatroni della chiesa gruarese, ne reclamavano il possesso. Tuttavia i documenti attestano che all’inizio del XV secolo la sacra tovaglia era stata trasportata a Valvasone e posta in un apposito altare dell’antica pieve, intitolata a Santa Maria delle Grazie e San Giovanni, soggetta, dopo la costruzione del duomo, ad un declassamento che, attraverso alterne vicende (nel 1485 fu affidata ai frati Serviti, sostituiti nel 1665 da Domenicani, che vi restarono fino al 1770), la portarono a un lento ma inesorabile declino, concluso con la sua definitiva demolizione nel 1866.

Il trasporto della Sacra Tovaglia è stato affrescato, da un anonimo, nel 1688 sulla facciata di un edificio detto “Torricella”, posto in una località di Valvasone che da esso prende il nome. 

Della delicata questione relativa al possesso della reliquia, che non trovava una soddisfacente soluzione in sede locale, fu investita la Santa Sede e il 28 marzo 1454 papa Nicolò V dispose che essa fosse affidata ai Valvason (che nel frattempo avevano ceduto il castello di Gruaro all’abate di Sesto, in cambio delle ville di San Lorenzo e Orcenico Superiore), a condizione che gli stessi edificassero una nuova chiesa dove ospitarla, da dedicare al Santissimo Corpo di Cristo.

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La sentenza romana si sovrappone alla decisione, presa nel 1449 nella chiesa duecentesca di San Giacomo (situata nell’attuale ex Posta), sotto l’auspicio del conte Giacomo Giorgio di Valvason (le insegne dei conti, giuspatroni del duomo, sono ben visibili in vari luoghi della chiesa, tanto da farla apparire quasi una cappella palatina), di costruire un nuovo edificio religioso nel quale conservare anche la reliquia, entro la seconda cerchia muraria, in un’area di proprietà comitale, in sostituzione dell’inadeguata e decentrata parrocchiale. Probabilmente l’esigenza della nuova chiesa e la conseguente espressa volontà della sua edificazione furono tenute presenti nella decisione papale, che così chiudeva in modo conveniente il controverso capitolo dell’attribuzione del sacro lino, la cui conservazione è finalmente affidata a un tempio ad esso dedicato, proprio come era avvenuto due secoli prima a Orvieto per il miracolo di Bolsena. 

I lavori di edificazione del nuovo centro della vita religiosa valvasonese non risultano particolarmente celeri, forse a causa della presenza di una parrocchiale ancora agibile, e si deve aspettare il 1466 per la copertura del tetto; intorno al 1479 la sacra reliquia venne trasferita nella nuova e definitiva dimora, data in cui la chiesa era certamente officiata, ma la conclusione della fabbrica si attesta attorno al 1484, quando, nel giorno della nascita di Maria (8 settembre), si procedette alla consacrazione.

La facciata

L'architettura del Duomo

La concezione architettonica attuata risulta decisamente semplice e austera e riprende lo schema tipico dell’ordine francescano (a sua volta derivato da quello cistercense), perseguendo una scelta dettata anche da esigenze contingenti, ed essa è rimasta sostanzialmente invariata fino ad oggi: un’ampia aula rettangolare, disposta verso oriente (su di una sede che risulta più bassa rispetto alla piazza circostante), a navata unica, con una copertura a capriate lasciate visibili, mentre archi a sesto acuto incorniciano il presbiterio a pianta rettangolare e le due cappelle che l’affiancano (quella a sinistra meno profonda per far posto alla possente torre campanaria, che ancora ospita una campana fusa nel 1733, con il metallo di una di due secoli precedente).

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Simili tipologie edilizie si possono rintracciare in diverse chiese edificate nella Destra Tagliamento nel secolo precedente, come San Pantaleone a Spilimbergo (1368), o nella seconda metà del XV secolo, tra le quali spicca la parrocchiale di Maniago (1488).

La fronte in origine rispecchiava fedelmente la severità dell’interno, proponendo un tetto a capanna e un'unica apertura centrale, terminante con una volta a sesto ribassato, sormontata da un grande oculo, ai cui lati, forse, erano ne erano posti altri due di minori dimensioni. Il presbiterio era invece illuminato da due alte finestre a sesto acuto, murate nel XIX secolo e sostituite con un rosone; recentemente le due aperture sono state ripristinate, con la conseguente eliminazione dell’inserzione ottocentesca, riportando questa parte dell’edificio alla sua originaria struttura; tra l’altro ciò ha consentito di evidenziare sulla parete di fondo i resti di una decorazione ad affresco di tipo fitomorfo.

La facciata

L’attuale forma della facciata, così come di gran parte del tempio è il frutto di una serie di radicali interventi realizzati tra il 1889 e l’inizio del Novecento, influenzati dal revival neogotico allora molto in voga e che aveva portato all’edificazione in questo stile di molte chiese friulane, come, per restare nei pressi, la parrocchiale di San Giovanni di Casarsa (1896-1904).

La nuova disposizione, progettata dal sanvitese Luigi Paolo Leonardon, è la stessa che possiamo osservare tutt’ora: un disegno a salienti, tripartito da quattro lesene, con un ampio rosone centrale e ai lati, al di sopra di un elevato basamento in bugnato, due alte bifore ogivali, al centro un portale a edicola cuspidata con lunetta affrescata da un anonimo ottocentesco (verso l’esterno è raffigurata l’Adorazione del Corpo di Cristo, all’interno Christus passus), il tutto incorniciato da teorie di archetti pensili e completato da quattro guglie, unite da sottili cuspidi collegate da archi polilobati entro un frontoncino triangolare, a formare un fastigio che corona l’edificio.

I lavori culminarono con un’intonacatura a strisce orizzontali, che caratterizza ancora oggi la facciata e anche l’interno del tempio, probabilmente eliminando precedenti decorazioni ad affresco (che comunque non dovevano essere particolarmente significative): un intervento che sembra voler accomunare la chiesa valvasonese al celebre duomo di Orvieto, legando in tal modo, almeno visivamente, due sedi ospitanti delle celebrate reliquie eucaristiche.

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Una simile facciata non corrisponde però in nessun modo ai caratteri originari del tempio, che seppur con qualche modifica si erano conservati per più di quattro secoli, e in particolare suggerisce una fittizia partizione in tre navate invece che in un unico vano.

L’intervento noegotico non si è limitato solo alla fronte, ma si è esteso anche all’interno, all’abside, dove le due aperture originarie sono state tamponate e al loro posto aperto un rosone, nonché al fianco settentrionale, dove le finestre quattrocentesche sono sostituite con le bifore tutt’ora visibili. 

La nuova facciata tardo ottocentesca, enfatizzata dall’abbattimento della torre che le stava di fronte, modifica radicalmente la funzione del fianco settentrionale, che, grazie alla particolare conformazione urbanistica della zona, aveva di fatto il ruolo di prospetto maggiore (similmente al duomo di Spilimbergo), a scapito dell’antica fronte, come si può ancor’oggi notare dal ricercato fregio in cotto e dalla presenza di affreschi decorativi, a motivi geometrici e figurativi (così come del resto erano certamente affrescate tutte le facciate delle costruzioni che circondavano il sacro edificio), tra i quali spiccano i resti di alcuni busti di santi, inseriti nello spazio negli archetti pensili sotto il cornicione.

L'altare maggiore

L'arte nel Duomo

Trasferendoci all’interno appare subito evidente che i cambiamenti susseguitesi negli oltre cinquecento anni di vita del tempio non hanno intaccato troppo la primitiva volontà di creare un ambiente di mistica semplicità, nel quale indirizzate l’attenzione del fedele verso la sacra reliquia eucaristica. Un intento, questo, reso ancor più evidente dalle recenti modifiche (del 2004) della parte absidale, culminate con l’arretramento dell’altare seicentesco posto sotto l’arco trionfale, le quali hanno restituito l’originaria partizione dello spazio.

L'altare maggiore

L’altar maggiore è un’opera della seconda metà del Seicento, che, con marmi policromi, riproduce l’architettura di un piccolo tempio, nel cui tabernacolo si custodisce (dal 1793) la sacra tovaglia. 

Al sopra di esso ha trovato collocazione un grande Crocifisso ligneo, attribuito a Pomponio Amalteo – artista che molto ha operato per il duomo valvasonese –, o meglio alla sua bottega, un’opera datata attorno al 1556-1557 e realizzata in uno stile volutamente attardato, tanto da richiamare esempi del secolo precedente. L’originaria sistemazione dell’importante intaglio era tuttavia sul trave dell’arcone del coro (da cui la tradizionale definizione di Cristo del travo), come testimonia pure la particolare fattura adatta a una visione di sottinsù.

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All’epoca nella quale pervenne il Cristo dell’Amalteo la chiesa presentava un arredo in gran parte diverso da quello attuale: l’altare maggiore era infatti ornato da un pala, raffigurante il Salvatore (ora scomparsa), e il sacro lino era conservato in una piccola ancona di rame indorato.

La costruzione del tabernacolo da collocare sull’altare principale è conseguenza delle raccomandazioni espresse nel 1584 dal visitatore apostolico Cesare Nores, vescovo di Parenzo, che, in conformità con il nuovo clima controriformistico, prescrisse di collocare la Santa Eucaristia al centro del coro e non più, come avveniva anche a Valvasone, in una semplice nicchia. 

Le cappelle laterali

Le due cappelle ai lati dell’altare principale, quella a sinistra, in cornu evangelii dedicata ai santi Giacomo Maggiore e Cristoforo, mentre dal lato dell’epistola a santa Caterina d’Alessandria, subirono radicali riforme nel corso del XVII secolo.

La cappella di santa Caterina

Proprio in quella intitolata alla protettrice di Venezia e delle puerpere sono presenti caratteri di particolare interesse: uno scenografico altare barocco con un elegante paliotto, in cui sono raffigurate Scene del martirio di santa Caterina, entrambi provenienti dall’ambito di Francesco Penso, detto il Cabianca (Venezia, 1665-1737), e databili all’ultimo decennio del Seicento. Il Cabianca era uno scultore di prestigio, attivo per la chiesa veneziana dei Frari e autore dei Santi Cristoforo e Giovanni Battista per San Cristoforo a Udine (1697), e nell’opera valvasonese offre un raffinato saggio delle proprie qualità plastiche, illustrando tre momenti del martirio della santa: al centro, in un bassorilievo che sembra suggerire la lontananza dell’azione, l’adorazione degli idoli, con la riproduzione di un Ercole (che richiama quello Farnese) e la presenza di una lucertola, allo stesso tempo allusiva della sapienza di Caterina e della volontà di ricercare la luce del vero Dio contro le tenebre del paganesimo; a destra è posto il giudizio della santa e sulla sinistra la sequenza della sua esecuzione, scene nelle quali le figure sono realizzate con un altorilievo che genera giochi chiaroscurali di drammatica intensità.

L’altare ospita inoltre una pala di eccezione, poiché si tratta di uno dei rari esempi conosciuti di pittura di “cavalletto” di Giulio Quaglio del 1701, che in questo caso ha rappresentato il Martirio di santa Caterina, raffigurandolo nel pieno rispetto dalla iconografia tradizionale, con la vergine in piedi e orante, l’imperatore Massenzio, la ruota dentata spezzata dagli angeli e due carnefici abbattuti.

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L’esecutore della tela, nella quale la tragica azione è risolta con equilibrio formale e una certa sobrietà degli atteggiamenti, era nato a Laino, nei pressi di Como, nel 1668 ca (muore nel 1751 ca ), ma è in Friuli, soprattutto a Udine, nonché in Slovenia (Lubiana) e Austria (Graz e Salisburgo), che ha lasciato delle straordinarie opere ad affresco - sua tecnica d’elezione - in grado di qualificarlo come uno dei principali protagonisti delle vicende pittoriche, non solo locali, fra Sei e Settecento.

Il dipinto di Valvasone, datato 1701, si inserisce a centro del percorso stilistico del pittore, autore a Udine delle decorazioni di Palazzo della Porta (1692), di Palazzo Strassoldo (1693), degli affreschi della cappella del Monte di Pietà (1694), del grande ciclo decorativo di palazzo Belgrado (1697-1698) e degli affreschi, distrutti, nella goriziana chiesa dei Santi Ilario Taziano (1702). 

La cappella dei santi Giacomo e Cristofolo

La cappella dedicata ai santi Giacomo Maggiore e Cristofolo ospita un altare con un paliotto marmoreo databile alla fine del Seicento, nel quale è raffigurato il Martirio di san Giacomo, opera che non presenta la forza espressiva e la qualità esecutiva di quello di santa Caterina.

La pala che orna l’altare, il quale ha una struttura architettonica del tutto simile a quello nel lato dell’epistola, è attribuita a Bartolomeo Ferrari nel 1667 e raffigura i titolari della cappella, ovvero i Santi Giacomo Maggiore e Cristofolo con la Vergine, in una statica riproposizione di schemi derivati dalla pittura di Palma il Giovane.

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In questa cappella per molti decenni è stata conservata l’icona della Madonna allattante (o Galactotrofusa), dipinto della prima metà del Trecento, realizzato da una bottega appartenente alla cosiddetta “scuola adriatica”, attiva sulle coste dalmate dall’inizio del XIV secolo sotto l’influenza di quelle componenti stilistiche pisano-riminesi che, in effetti, si ritrovano pure nella tavola di Valvasone. Il piccolo dipinto dal  fondo oro deriva probabilmente dall’antica parrocchiale, la chiesa di Santa Maria e Giovanni, in cui potrebbe essere giunto nel 1345-1355 e dove sarebbe rimasto fino alla fine del Settecento; nel corso dei secoli è stato oggetto di una particolare venerazione, tanto che la tradizione locale gli ha spesso assegnato eventi miracolosi. 

Gli altari di san Nicolò e della santa Croce

Lungo le pareti laterali sono collocati altri due altari: a sinistra quello dedicato a San Nicolò vescovo e sul lato opposto quella della Santa Croce.

Il primo è in stile neogotico, realizzato durante i lavori che hanno coinvolto anche la facciata, e sostituisce uno del 1678, opera dei tagliapietre di Meduno Giuseppe e Daniele Ciotta. In esso è collocata una pala del pittore veneziano Matteo Luigi Canonici, pagata nel 1791, in cui è effigiato San Nicola in preghiera davanti alla Vergine con il Bambino.

 

L’altare della Santa Croce, che nel 1576 la contessa Giulia di Valvasone ha dotato di un lascito di ben 1000 ducati, è opera del 1705 di Francesco Caribolo, benché con pesanti modifiche degli inizi del Novecento, e ospita una pala del pittore Anzolo di Portogruaro, del 1605, che raffigura Sant’Elena e il ritrovamento della Croce. Dai documenti d’archivio apprendiamo che nel 1556 erano stati emessi dei pagamenti in favore di Pomponio Amalteo per una pala da inserire in questo altare, ma di essa non vi è traccia: pare che in meno di cinquant’anni, per qualche motivo non conosciuto, si fosse resa necessaria la sua sostituzione con un nuovo dipinto.

L'organo monumentale

Appartiene al Cinquecento l’organo, che, per l’importanza dello strumento e delle parti pittoriche, rappresenta il vanto della comunità valvasonese ed è certamente una delle presenze d’arte più interessanti dell’intero Friuli. Si tratta di un’impresa che, nelle intenzioni dei committenti nel 1532, risulta particolarmente ambiziosa: unire il meglio della produzione musicale veneta, con lo strumento del grande maestro Vincenzo de Columbis (Casale Monferrato, 1490 ca – Venezia, 1574), con il contributo del massimo pittore friulano dell’epoca, Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone (1484 ca - 1539).

I lavori iniziarono nel 1533 con le opere architettonici necessarie a posizionare lo strumento, su di una cantoria ancorata sulla parete destra, in cornu epistolae. Nello stesso anno l’organo è alloggiato ed entra in funzione, benché la costruzione della cassa che lo riveste, a cura del “marangon” Stefano di Venezia, si concluda nel 1535. Prende quindi avvio la sua decorazione, cui attesero fino al 1538 l’intagliatore Girolamo di Venezia e l’indoratore Tommaso Mioni da Udine, i quali propongono un elegante repertorio, fatto di mascheroni e girali, ormai di gusto manierista.

Per le portelle era stato contattato il Pordenone, che nel 1537 riceve anche un acconto (di 55 ducati) per la realizzazione delle ante su temi eucaristici; ma due anni dopo il pittore muore a Ferarra, lasciando incompiuta la realizzazione appena avviata.

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L’attenzione prestata per questo strumento, ingaggiando i più quotati tra gli organari, gli artigiani e gli artisti, e affrontano così tante e cospicue spese, è un eloquente indice dell’attenzione prestata nella Valvasone nel XVI secolo per l’attività musicale, che aveva due centri, entrambi strettamente legati ai signori di Valvason: il castello e la chiesa parrocchiale. In quest’ultima l’attività liturgico-musicale doveva essere molto intensa, come testimoniano numerosi documenti, che, tra l’altro, raccontano della frequente esecuzione di sacre rappresentazioni, come quella di Feo Belcari “Abraam e Isac”, legata a motivi eucaristiche e dunque molto adatta all’ambiente. 

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La scelta del Pordenone per eseguire le decorazioni pittoriche è emblematica della volontà di fare dell’organo di Valvasone un mezzo per dichiarare il prestigio di cui godevano i committenti e l’importanza del luogo in cui si collocava. Il pittore era infatti uno degli artisti più noti dell’epoca e, in particolar modo, veniva considerato come uno dei maggiori interpreti della modernità artistica, grazie alla monumentalità che conferiva alle figure, rappresentate attraverso arditi e stupefacenti scorci prospettici e inserite in composizioni di nuova invenzione, con la presenza di frequenti richiami al mondo antico. Tali abilità avevano portato il giovane artista dal nativo Friuli, dove aveva prodotto splendidi esempi, a cimentarsi in grandi imprese a Cremona, Piacenza e Venezia. Il Pordenone aveva già dato prova della sua creatività nell’ornamento di organi, lavorando per il duomo di Spilimbergo (nel 1523-24) e per quello di Udine (nel 1527-28), in cui aveva completato con i riquadri del poggiolo l’opera iniziata da Pellegrino da San Daniele. 

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Non conosciamo con esattezza il programma iconografico (e chi ne fosse l’ideatore) che sottende la decorazione pittorica del prezioso strumento: certo il riferimento al Corpo di Cristo (che dà la titolazione alla chiesa) è sempre centrale ed è evidente l’inevitabile legame instaurato con il culto della sacra reliquia; tuttavia, secondo alcune interpretazioni, nei dipinti valvasonesi si celerebbe una sottile polemica contro la chiesa romana e un’attenzione a favore del movimento luterano (la stessa possibilità è prospettata per i dipinti dell’organo spilimberghese), che proprio tra alcuni membri della famiglia dei Valvasone, così come in altre nobili casate friulane del tempo, sembra abbia goduto di qualche simpatia. 

La decorazione dell'organo

Sulle ante, la cui ideazione spetta al Pordenone, sono raffigurati temi del Vecchio Testamento: chiuse propongono la grandiosa scena della Caduta della manna, episodio che rappresenta un’evidente prefigurazione dell’Eucarestia, mentre aperte, come sono quando lo strumento è in funzione, a sinistra è collocato il Sacrificio di Abramo e sul lato opposto il Sacrificio di Melchisedech, anch’esse vicende commentate dalla tradizione come simboli eucaristici, oppure, seguendo una lettura “riformatrice”, esempi di abbandono alla volontà di Cristo, l’unico nel quale risiede la salvezza.

Nel poggiolo, viceversa, compaiono riquadri, integralmente pensati e realizzati da Pomponio Amalteo all’inizio degli anni ‘50, con episodi tratti dai Vangeli: da sinistra, le Nozze di Cana, la Cacciata dei mercanti dal Tempio, la Probatica piscina, la Moltiplicazione dei pani, e la Conversione della Maddalena. Tutti avvenimenti legati in vario modo a una esegesi di natura eucaristica, come prefigurazioni sotto altre forme del Sacramento; ma anch’essi forse riportabili ad un’esaltazione del valore salvifico del Cristo, inteso come unico interprete della fede, in contrapposizione ai sacerdoti-mercanti cacciati dalla casa del Signore.

Il Pordenone aveva iniziato l’opera nel 1537 ma non riuscì a portarla a termine, lasciando, probabilmente, solo l’abbozzo delle scene presenti sulle ante; a completarle sarà chiamato nel 1549, dodici anni dopo, il pittore sanvitese Pomponio Amalteo, allievo e genero del de Sacchis.

Approfondimento

Non si tratta dell’unico episodio del genere, poiché Pomponio “ereditò” anche altre commesse lasciate incompiute dal suocero, come nel caso, solo per citare qualche esempio, delle Storie del Vecchio e Nuovo Testamento nell’abside di Santa Maria Assunta a Lestans (1548) o degli affreschi, purtroppo in gran parte distrutti, a Santa Croce di Casarsa.

L’Amalteo era nato nel 1505 a Motta di Livenza, in una famiglia di letterati, e attorno ai dieci anni entrò nella bottega del Pordenone, sullo stile del quale si è formato; fin dal 1529 iniziò a operare come artista autonomo, raggiungendo notevoli risultati formali, testimoniati dalle molte pale d’altare prodotte per le chiese friulane (tra l’altro due importanti esempi sono conservati nella parrocchiale di San Martino al Tagliamento, contigua a Valvasone), nonché di cicli ad affresco, in cui spicca quello della chiesa di Santa Maria dei Battuti a San Vito al Tagliamento, cittadina dove il pittore risiedeva e in cui venne a morte nel 1588.

L’artista mottense è una delle più interessanti personalità pittoriche del Friuli nel XVI secolo, anche se la lettura critica della sua figura per molto tempo è stata schiacciata da quella del suocero, rivestendo l’ingrato ruolo di pedissequo imitatore, capace unicamente di perpetuare stancamente le formule stilistiche apprese dal maestro, attraverso una cifra espressiva piuttosto debole; certo le sue qualità erano molto inferiori a quelle del Pordenone, nondimeno è giusto notare, come ha fatto la storiografia più avveduta, che la sua totale osservanza dei modi del grande artista non deve essere imputata all’incapacità di formulare una propria via originale, bensì alla consapevole adesione alle regole interne di alcune botteghe rinascimentali, che prevedevano proprio l’iterazione degli insegnamenti impartiti dal caposcuola. 

Approfondimento

Per quanto riguarda la decorazione dell’organo di Valvasone, in passato le fonti letterarie hanno sempre, concordemente, assegnato le portelle all’Amalteo, mentre gli studiosi moderni, sulla scorta del ritrovamento di documenti d’archivio che citavano il Pordenone e di alcuni disegni, si sono a lungo impegnati attorno alla questione della loro attribuzione, cercando di distinguere le mani dei due artisti. Si può ormai dire con certezza che lo schema compositivo della Caduta della manna, con alcune figure centrali, spetta integralmente al Pordenone, che proprio per tali fatiche aveva ricevuto un anticipo. Il maestro pensò a una scena di grande impatto visivo, mostrando la concitata azione di una moltitudine di personaggi affannati e intenti nella raccolta del nutrimento divino, caratterizzati da forme imponenti e da prospettive ardite, elementi peculiari dello stile del pittore friulano, associati a soluzioni di matrice “romanista”, come nel caso della donna con la brocca sul capo, citazione “manierista” tratta dall’Incendio di Borgo che Raffaello aveva affrescato nel 1514 nelle Stanze vaticane, o dal richiamo michelangiolesco presente nella figura in primo piano chinata sul terreno. L’intervento di Pomponio, dopo oltre un decennio, completò quanto lasciato non finito (per tale intervento il pittore sanvitese ricevette il compenso di 100 ducati), proponendo figure che, a ben osservare, si possono ricondurre alla sua mano per alcune incertezze nell’articolazione delle forme, per la mancanza di vivacità cromatica e le fisionomie stereotipate. Le scene sulle ante interne, probabilmente, sono state solo impostate dal Pordenone, come sembra deporre le vibranti figure di Abramo e Melchidedech, e dipinte integralmente dall’allievo.

Nel 1551 l’Amalteo riceve pure la commissione, dai nobili consorti di Valvasone, per la pittura dei cinque riquadri del poggiolo dell’organo, cui era aggiunta una pala raffigurante il “presepio” per l’altare posto sotto lo strumento (non più esistente), intitolato proprio al Presepe o forse alla Madonna, e per un’ulteriore pala da affidare all’altare della Santa Croce (non rintracciata), oltre al già menzionato Cristo del travo. Nelle scene, che, come abbiamo notato, trattano fatti dal Nuovo Testamento, Pomponio riprende e rielabora, come sempre, idee del suocero, soprattutto da quanto creato per la chiesa veneziana di San Rocco, nonché spunti tratti da incisioni provenienti dall’area germanica; tuttavia è interessante osservare che due scene valvasonesi, la Probatica piscina e la Cacciata dal Tempio, si ritrovano, sebbene amplificate nelle dimensioni e con una resa formale ben più curata, nei dipinti che l’artista mottense ha licenziato nel 1555 per l’organo del duomo di Udine.

All’Amalteo si devono anche i fregi affrescati con motivi a grottesche ai fianchi dello strumento, il quale, grazie ad accurati restauri, fa risuonare ancor’oggi la sua melodiosa voce. 

L'organo e il Duomo

Da esso provengono suoni che riportando indietro di secoli l’atmosfera di questa chiesa, nata come rinascimentale, per dar risposta all’ampliamento della cittadina e per ospitare degnamente il miracolo eucaristico, ritoccata in alcune parti nel clima controriformistico e barocco del Seicento e, infine, pesantemente modificata in senso “neogotico” alla fine del XIX secolo, eppure è un luogo che ha saputo mantenere integra l’austera semplicità e la spiritualità delle sue origini, caratteri che ne fanno uno dei più singolari e affascinanti luoghi di culto di tutto il Friuli.