Le chiese di Paularo in Carnia

Le chiese di Paularo

Le chiese di Paularo in Carnia

Le chiese di Paularo in Carnia

Le chiese di Paularo

Il visitatore che arriva a Paularo non può non essere colpito dalla mole imponente della chiesa parrocchiale di San Vito che domina il paese dall’alto di un colle alluvionale. Una suggestiva emergenza paesaggistica che è resa ancora più singolare dalle possenti costruzioni murarie in blocchi di pietra grigia che la sostengono. Si tratta di un complesso monumentale reso ancora più imponente dal pronao ottocentesco sorretto da quattro colonne giganti. Pacifico Valussi, salito nella Valle d’Incaroio a far visita a Giambattista Bassi che aveva da poco completato la sistemazione della facciata (1851), si disse ammirato anche per la scenografica gradinata di accesso, tanto da definire «il tempio» una delle tre meraviglie del Friuli, con il Ponte del Diavolo a Cividale e il duomo di Gemona.

Approfondimento

Fino al XIII secolo di Paularo non si hanno notizie sicure, anche se la recente scoperta di una necropoli nella frazione di Misincinis consente di avere certezza sull’origine celtica dei primi abitanti dell’alta valle d’Incaroio. Il nome del paese viene citato per la prima volta in un documento del 1295 e quasi contemporanei sono i primi documenti che riguardano la chiesa che, dedicata ai santi martiri Vito, Modesto e Crescenzia, risale ad una data imprecisata del secolo XIII. Nello stesso periodo sarebbe sorta anche la prima chiesa di Dierico, dedicata a S. Maria. Il primo giugno del 1300 è documentata una convenzione tra i rappresentanti della comunità e il pievano d’Illegio. Quest’ultimo s’impegnava a garantire la presenza stabile di un curato nella vallea fronte di un versamento annuale di venti staia di frumento, un pesenale per famiglia. Il documento fornisce due importanti notizie: l’esistenza di una chiesa e la consistenza della popolazione formata da circa centoventi famiglie, corrispondenti a seicento persone circa. Il cappellano si insediò, ma la sua permanenza fu saltuaria se il 10 giugno 1399 si sentì la necessità di ribadire un accordo fra i rappresentanti della valle e il pievano d’Illegio, accordo che confermava la necessità di un cappellano residente per l’assistenza spirituale della popolazione e al quale la comunità avrebbe garantito una canonica ristrutturata, riservandosi però il privilegio di presentare il nome del successore. 

Approfondimento

La bolla del 31 agosto 1533 del vicario del patriarca Marino Grimani, in cui si cita la elezione a titolare della chiesa di San Vito del reverendo Floreano Speziari da Dierico, fornisce notizia dell’esistenza di un fonte battesimale e di un cimitero; si ha così la certezza che il canale d’Incaroio si era reso indipendente dalla chiesa matrice di San Floriano. L’11 maggio 1583 Giuseppe de’ Costantin divenne parroco di San Vito. Originario di Tarcento, decise di provvedere alla decorazione a fresco delle volte a crociera di San Vito a Paularo e di San Maria a Dierico e verso la fine del secolo incaricò dell’esecuzione Giulio Urbanis, che era stato autore delle apprezzate pitture a fresco nella pieve di Illegio, in quella di San Pietro di Zuglio e nella chiesa di Rivalpo. Degli affreschi di Urbanis, sono stati recuperati e restaurati quelli della chiesa di Dierico, mentre sono stati distrutti nel 1769 quelli della chiesa di San Vito a Paularo. 


Nel 1656 divenne parroco Pietro Lupieri da Preone. A lui va attribuita la costruzione del vecchio altare maggiore della chiesa di Paularo, di cui ci resta solo una dettagliata descrizione. Si trattava di un altare in legno dorato con otto statue tra le quali quelle di dei santi Vito, Modesto e Crescenzia; la Beata Vergine, al centro, sovrastava un «tabernacolo … con una portella, su vi era inciso il Redentore in bassorilievo in atto di essere posto nel sepolcro da due angeli». Quando l’altare fu demolito, le statue andarono disperse. La statua della Beata Vergine sarebbe quella esistente nella cappella votiva di Casaso, ma non esiste documento che lo sostenga. 


La chiesa nel Settecento

Il Settecento è stato il secolo dominato, nell’alto Friuli, dalla figura di Iacopo Linussio.

Approfondimento

Nato l’8 aprile 1691 a Villa di Mezzo nella valle d’Incaroio in una famiglia di “basse fortune”, dopo un apprendistato a Villaco rientrò in patria, aprendo a Moggio un piccolo opificio per la pettinatura del lino. Ebbe successo e in breve avviò altre due manifatture, una a Gleria di Moggio e l’altra nei pressi di Tolmezzo. Tra il 1722 e il 1725 faceva lavorare 150 telai con 200 tessitori e 2500 filatrici con una produzione di 3000 pezze di tela. Il fatto che Linussio impiegasse nel capoluogo carnico centocinquanta famiglie che prima «erano costrette di viaggiare con sommo disagio ad esteri paesi per trovare lavoro, ora godono in propria casa con doppio avvantaggio l’emolumento dell’arte», favorì la concessione dai Savi della Serenissima di privilegi sui dazi e sulla protezione dalla concorrenza. Anche grazie a queste garanzie provvide a ristrutturare e ampliare gli impianti e a costruirsi una grandiosa abitazione a Tolmezzo (eretta tra il 1739 e il 1746) con gli annessi opifici. L’elegante costruzione fu completata con la edificazione della cappella, eretta proprio l’anno della morte del Linussio (17 giugno 1747). Come per gli altri edifici, anche la cappella fu affidata alle cure costruttive dell’architetto Domenico Schiavi, che godeva della stima dell’imprenditore e che sarebbe stato nei decenni successivi il protagonista della ricostruzione di molte chiese in Carnia, in Friuli e nel vicino Veneto. Nel testamento l’imprenditore disponeva generosi lasciti a favore del duomo del capoluogo carnico e provvidenze per tutte le pievi della Carnia. La direzione dell’azienda passò al fratello Pietro che proseguì l’attività, diversificandola, sino al disastroso terremoto del 1788 e alle altrettanto disastrose conseguenze derivate dal crollo dello stato veneto (1797), sino alla sua liquidazione avvenuta fra il 1813 e il 1814. La famiglia Linussio fu generosa nell’assicurare finanziamenti per l’estesa ricostruzione Settecentesca di chiese parrocchiali in Carnia, certo per la necessità di rimediare i danni del disastroso terremoto del 28 luglio 1700, ma anche per rispondere alle esigenze legate all’aumento della popolazione, che dal 1647 al 1790 era passata da 22.000 a 34.000 abitanti. Ma per le diffuse ricostruzioni delle chiese nel Settecento non giocò certo un ruolo secondario l’esigenza di spazi adeguati alle cerimonie liturgiche che si svolgevano con riti sontuosamente barocchi che imponevano scene affollate di protagonisti che richiedevano ampi spazi. 

Approfondimento

Tra 1750 e 1800 in Carnia si ampliarono, si ristrutturarono o si ricostruirono trenta chiese. Per molte di esse fu impegnata la tolmezzina famiglia Schiavi, guidata dall’architetto Domenico il giovane. Gli Schiavi operarono a Treppo (1764-1781), a Paularo (1770-1785), a Forni di Sotto (1771-1791), a Piano (1776-1782), a Raveo (post 1777), a Sutrio (1778-1791) e a Cercivento (1795-1797). I membri della famiglia, sotto la direzione di Domenico, agivano di concerto: il fratello Antonio, pittore, provvide all’affrescatura del duomo di Tolmezzo (1761), di San Daniele a Paluzza (1764), di San Vito a Paularo (1775), del coro e sacrestia di Santo Stefano di Piano d’Arta (1776), di Santa Maria di Verzegnis (1778). Il fratello Francesco fu capomastro, ma anche pittore occasionale, mentre il figlio Ilario, stuccatore, era all’opera nel 1781 a Forni di Sotto. L’altro figlio, Angelo, nato a Tolmezzo nel 1749, lavorò con il padre nella costruzione della parrocchiale di San Vito a Paularo.

L’affermarsi di due illustri casati della Valle d’Incaroio, quelli dei Linussio e dei nobili Calice, ebbe riflessi anche sulla chiesa di San Vito. Nel 1717 fu infatti proprio un Linussio, Giambattista, ad essere eletto dalla comunità a sostituire il defunto parroco Matteo Silverio da Paluzza. Fu lui a fondare la confraternita di San Valentino, ma scomparve nel 1732. Fu sepolto ai piedi dell’attuale altare delle Anime purganti. Fu chiamato a succedergli il reverendo Gerolamo Calice, della nobile famiglia che dalla seconda metà del Cinquecento si era insediata a Paularo per controllare il commercio dei legnami per la Repubblica Veneta. Morì l’anno successivo e lo sostituì un parente, Pietro Antonio Calice che era dottore in utroque. Questi dovette gestire la separazione della chiesa di Dierico, che ebbe un curato il 14 dicembre del 1737. A Paularo costruì per sé una nuova canonica, nel borgo di San Antonio, alle spalle del palazzo di famiglia e in vicinanza dell’Oratorio di Sant’Antonio edificato da Tommaso Calice nel 1674, nello stesso anno in cui fu insignito del titolo di barone del Sacro Romano Impero per meriti militari. Anche Pietro Antonio morì giovane, appena trentasettenne, nel 1742. Il successore, Leonardo Antonio Capellani di Rivalpo, fu il parroco che si impegnò per la ricostruzione della chiesa di San Vito e che diede avvio ai lavori grazie anche al sostegno dei Linussio. La popolazione era aumentata rapidamente e la vecchia chiesa, segnata dal tempo, forse con i muri crepati anche dai terribili terremoti del 1511 e del 1700, non era più in grado di soddisfare le esigenze. Nel 1742 la Fabbriceria deliberò la demolizione del vecchio edificio e di sostituirlo con uno nuovo.

La costruzione della nuova chiesa

Nel 1745 il parroco gettò «le fondamenta dell’attuale coro, ne innalzò fino a un certo punto le pareti, sovrapponendo loro un coperto di tavole». Questa costruzione fu innalzata in breve grazie alla generosa partecipazione dei fedeli e si rese indispensabile anche per dare riparo, nel 1747, all’altare marmoreo offerto da Iacopo Linussio (sul retro è immurata una lapide in marmo bianco, con elegante cornicetta scolpita e con l’epigrafe D.O.M. │ Jacobi Linussii │ pietate │ MDCCCXLVII) Due anni dopo Leonardo Antonio Capellani morì e fu chiamato a sostituirlo un parente, Giovanni Floreano Capellani che proseguì nell’impegno di ricostruzione e fondò la confraternita di San Gerolamo. Morì agli albori del nuovo secolo (1804), dopo aver retto la chiesa di Paularo per ben cinquantacinque anni. Si deve alla sua opera la ricostruzione della chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia nella forma e struttura attuale, almeno per quanto riguarda gli interni. I lavori di demolizione a funditus, della vecchia chiesa di S. Vito vennero iniziati nel 1769. La chiesa fu «rifabbricata in bella forma nel circolo di 16 mesi, essendo ora [1772] già stabilito il coperto». La ricostruzione dell’edificio fu terminata da Domenico Schiavi nel 1785, anche se in una dichiarazione sottoscritta da Angelo di Domenico Schiavi architetto il 3 luglio del 1792 davanti ad un notaio si afferma che restavano da completare il coro e la facciata.

Per una ventina d’anni i lavori di demolizione della vecchia chiesa restarono sospesi. Fu la morte di Iacopo Linussio a provocare forse la lunga sospensione nei lavori; veniva, con la sua scomparsa, a mancare la certezza del sostegno economico che aveva fino ad allora garantito. L’imprenditore tolmezzino aveva favorito l’incarico di stendere il progetto per la chiesa di Paularo e poi di dirigerne la ricostruzione a Domenico Schiavi di cui aveva già sperimentato la perizia e l’eleganza delle soluzioni architettoniche per il palazzo di famiglia. E se nello stesso anno della morte del mecenate l’altare da lui donato poteva essere elevato nel centro del nuovo coro, ciò lascia intendere che Domenico Schiavi aveva già fornito gli estremi fondamentali del progetto, tanto da consentire di erigere le strutture portanti del presbiterio su nuove fondazioni.

Approfondimento

Una lettera di Giacomo Meneano ad Andrea Linussio, datata «16 febraro 1769», fornisce un importante elemento relativo alla progettazione di San Vito. Meneano tiene ad informare Linussio che «… i Sindici sono chiamati dal S. Capo Schiavi a Tolmezzo per passare al contratto della Fabbrica della nostra Venerata Parochial Chiesa, avendo egli a quest’ora compito il Dissegno della medesima, …, cosicchè non è più da temere che m.o Angelo ci possa reccare verun disturbo né co’ suoi genialissi [colpi di genio] alterare le nostre idee». Par di capire che il giovane Angelo Schiavi, figlio di Domenico avesse già iniziato a collaborare con il padre nella progettazione della chiesa di Paularo e che tentasse, nonostante la giovane età (era nato nel 1747), di interferire sulle scelte architettoniche che i Linussio avevano concordato con il padre architetto. La presenza di Domenico come direttore del cantiere («capomistro») iniziò nello stesso anno della firma dell’accordo contrattuale, con la demolizione completa del vecchio edificio.

Approfondimento

L’architetto Bruno Canciani, progettista e direttore dei lavori di consolidamento e restauro che hanno interessato la parrocchiale di Paularo dopo il terremoto del 1976, ha potuto rilevare la perimetrazione del vecchio edificio e individuare le cripte che esistono sotto il pavimento e dove sono state sepolte, nei secoli passati alcune persone, prevalentemente sacerdoti. Il perimetro della chiesa demolita aveva il campanile addossato al presbiterio, nella sua parete esposta ad oriente. Il campanile non fu oggetto di alcun intervento da parte degli Schiavi, nell’opera di ricostruzione della chiesa, tanto che la guglia gotica conservata intatta è presente nella incisione del 1851 di A. Krausse su disegno di P. Chevalier.

L’aula della chiesa di San Vito si presenta a navata unica, ad angoli arrotondati che si raccordano al soffitto con pennacchi d’angolo e offre i tratti architettonici tipici del Settecento, quelli di un barocco sobrio, proprio dell’area veneto-friulana, elegante e luminoso. L’architettura è caratterizzata da una classica razionalità, gradevole per le proporzioni molto equilibrate, per la linearità e la chiarezza del segno che dona un senso di movimento alle pareti, grazie al gioco chiaroscurale degli elementi aggettanti. Le paraste, con alto basamento e coronate da un capitello ionico, reggono un’elaborata trabeazione che corre lungo tutto il perimetro della chiesa e delimitano, in coppia, le quattro nicchie laterali, poco profonde e in cui sono sistemati i quattro altari laterali. Quattro finestroni, posti al di sopra della trabeazione, in corrispondenza delle nicchie, illuminano l’aula.

Il presbiterio è sopraelevato e vi si accede salendo tre gradini in marmo rosso. Fino all’ultimo intervento di restauro, i gradini erano coronati da una balaustra in legno, dipinto ad imitazione del marmo grigio, ora rimossa e conservata in una delle sacrestie settentrionali. Dal presbiterio si accede alle sacrestie.

La facciata

Gli interventi Ottocenteschi e il completamento della facciata

All’inizio dell’Ottocento, successore di Giovanni Floreano Capellani, fu eletto parroco Nicolò Selenati da Sutrio. Dopo una iniziale titubanza, Selenati prese possesso della parrocchia nel maggio del 1806. Vi rimase per quasi mezzo secolo, fino al 1855, e attorno a lui ruotano tutte le vicende paularine della prima metà del secolo XIX.

A pre Selenati è legata una figura di rilievo dell’Ottocento friulano: l’architetto Giambattista Bassi. Fu il parroco infatti a volere fermamente il completamento della facciata della chiesa di S. Vito, che gli Schiavi avevano lasciato incompiuta, mediante la costruzione del pronao eretto tra il 1849 e il 1851, disegnato dall’architetto Bassi, suo grande estimatore e che dagli anni Trenta, aveva preso a frequentare la valle d’Incaroio dove passava l’estate, ospite della locanda gestita nel palazzo Calice-Linussio. La stima fra i due era intensa, tanto che l’architetto incaricò il pittore Filippo Giuseppini del disegno della effigie del Selenati che fu litografata a Trieste da Bortolo Linassi, oriundo di Chiaulis di Paularo.

Il pronao, con quattro colonne ioniche giganti che reggono una trabeazione non decorata, fu costruito tra il 1849 e il 1851. L’imponente costruzione è sorretta da potenti muri in pietra squadrata che conferiscono al complesso una dimensione monumentale.

La facciata dello Schiavi, come le altre pareti esterne dell’edificio, era rimasta spoglia, con un unico elemento decorativo rappresentato dal portale centrale, una elegante struttura architravata sormontata da un frontone ad arco ribassato interrotto nella porzione centrale. Alla pietra grigia dei pilastri e dell’architrave si sovrappone un elemento lineare in marmo rosso di Ramaz che viene utilizzato anche per una decorazione interna all’arco ribassato.

In questo intervento, l’architetto del “neodorico” per una volta abbandonò l’ordine prediletto per quello ionico. Gilberto Ganzer ritiene che «in poche occasioni un intervento architettonico così importante, come è il pronao della facciata della chiesa di S. Vito, si armonizzi, completando, senza forzature né discontinuità, un edificio settecentesco di sobria eleganza neoclassica, com’è quello progettato da Domenico Schiavi. E proprio nell’intelligente rispetto dell’edificio esistente, l’architetto potrebbe avere considerato che l’ordine ionico si imponeva perché già utilizzato nell’interno dell’aula a coronamento delle paraste che scandiscono le pareti laterali sostenendo la trabeazione».

L’effetto monumentale che il pronao doveva assicurare alla chiesa di Paularo fu accentuato con la costruzione della gradinata di accesso formata da tre rampe di dieci gradini. La gradinata era originariamente sopraelevata e sostenuta da robuste strutture murarie che, nel lato meridionale, si raccordavano con quelle costruite per sostenere l’edificio. Con il tempo sono state parzialmente sepolte da un terrapieno.

L'organo

Dal Settecento la chiesa dispone di un organo collocato in cantoria, sopra la porta maggiore d’ingresso all’ampia navata. Nell’archivio parrocchiale non sono stati trovati documenti relativi all’autore ed all’anno di costruzione. Le prime notizie risalgono al 1764. In un documento si afferma che la facciata dell’organo che si voleva costruire a Pesariis doveva essere simile a quella «dell’organo fatto dal prete Nachini a S. Giacomo di Mercà nuovo, o di Santa Lucia d’Udine, o d’Incaroio…». Lo strumento ne ha tutte le caratteristiche, quantunque potrebbe essere stato realizzato da altro autore proveniente da Venezia o dal Friuli, rimaneggiato e trasformato secondo lo spirito neoclassico dell’importante caposcuola dell’organaria veneta. A testimoniare questa ipotesi è l’impianto fonico, la disposizione a piramide centrale con ali laterali delle canne, il loro diametro (a intonazione larga) ed i tromboncini a cuspide disposti davanti alle medesime. Nel 1771 l’organo fu smontato e «riposto in casse» dall’organaro carnico Giacomo Selenati di Sutrio, durante la demolizione della chiesa. Selenati morì e solo nel verso la fine del secolo Giovanni Battista De Corte, della famiglia di organari di Ovasta, intervenne per il suo rimontaggio nel nuovo edificio, dentro una cassa di semplicissima fattura, di gusto neoclassico. Nel 1814 è documentato un intervento di Francesco Comelli; nel 1837 i fratelli Pietro e Giovanni Battista Luigi De Corte rifecero le canne dei Tromboncini, riutilizzando probabilmente i canaletti e le noci originali. L’ultimo intervento (1990) è avvenuto ad opera della casa Gustavo e Francesco Zanin che ha riportato l’organo alle sue origini, con tastiera ricoperte in ebano e osso e pedaliera a leggio.

Il soffitto affrescato

L'interno di San Vito

Dalla galleria dell’organo si può ammirare l’interno della chiesa di San Vito e si resta colpiti per lo splendore di un’ampia aula rettangolare ad angoli arrotondati, pavimentata con eleganti lastre marmoree rosse e beige, alternate a formare una scacchiera diagonale, interrotta da una corsia centrale che porta al presbiterio. L’alto soffitto si conclude con una cupola e un ricercato gioco di raccordi definisce il riquadro centrale, di forma rettangolare ad angoli curvi (7,0x3,5 m), incorniciato da una lieve cornice a stucco che dona profondità al soffitto stesso, affrescato con la luminosa Vergine in gloria fra i santi patroni di Antonio Schiavi.

 

L’affresco di Antonio Schiavi si incentra in due soggetti: nella parte superiore la Vergine in gloria, in veste azzurra, in un corteggio di sedici angioletti e cherubini. Sotto la Vergine, un putto regge la corona del Rosario, a ricordare il ruolo di grande devozione che la Madonna del Rosario aveva a Paularo e alla quale era titolata una specifica confraternita. Nella parte sottostante, San Michele arcangelo che con lo scudo fiammeggiante e la lancia acceca e trafigge Lucifero e gli angeli ribelli. Ai margini della composizione sono raffigurati, tra nubi, da un lato i santi patroni Vito e Modesto, mentre dall’altro, dietro a san Gerolamo inginocchiato in contemplazione della Vergine, si affaccia san Valentino che indossa la tonaca. I tre ribelli sono tratteggiati con colori cupi e spenti, a contrastare la luminosità dorata che permea la scena superiore dell’affresco, e che ricorda quella dell’affresco di Giambattista Tiepolo sul soffitto dello scalone del palazzo arcivescovile udinese. Anche le nubi su cui si reggono i ribelli hanno i colori di quelle tempestose, colori che accentuano il contrasto con i bianchi brillanti dello scudo dell’arcangelo Michele e con le tinte pastello dei Santi e della Vergine. In quest’opera si rinnova un ciclo classico per lo Schiavi, ma che forse a Paularo più che altrove, raggiunge le espressioni più elevate della sua arte. Va infine sottolineato l’omaggio alle quattro confraternite operanti in tempi diversi a Paularo: quelle del Rosario, di San Michele, di San Valentino e di San Girolamo.

La composizione è gradevole, con corrette figure inserite in un’atmosfera rarefatta, dominata da raffinati impasti di colori chiari, con qualche minima esasperazione prospettica e un accenno di drammaticità nelle sole figure dei demoni, plasticamente modellati dal forte chiaroscuro e tenuti sui toni brunastri, quasi ad imitare lo stucco con cui il Tiepolo risolve la figura di Lucifero nel soffitto dello scalone del palazzo Patriarcale. Interessante la figura del grande angelo Gabriele ai piedi della Vergine, il cui volto fortemente scorciato pare riprendere quello della Maddalena nella Crocifissione di Nicola Grassi nel duomo di Tolmezzo, o quello del San Giovanni Evangelista dipinto dallo stesso Grassi per la parrocchiale di Ampezzo.

Tommaso Calice, membro influente della nobile famiglia, finanziò i quattro Evangelisti dei pennacchi sui curvi costoloni d’angolo, che raccordano pilastri e soffitto. Schiavi dipinse, in bei riquadri polilobati, i quattro Evangelisti: Matteo e Marco occupano i due costoloni prossimi al presbiterio, mentre Giovanni e Luca sono affrescati sui costoloni sopra l’atrio d’ingresso. Il soggetto fu più volte affrontato dal pittore, ma qui con mano davvero felice se confrontati con quelli affrescati sulla volta del coro della chiesa di Santo Stefano a Piano d’Arta (1776) o con quelli del catino absidale della chiesa di San Martino a Villa di Verzegnis (1778). I colori sono luminosi e i chiaroscuri contrapposti ricordano i numerosi evangelisti di Nicola Grassi, ma anche i dipinti di Niccolò Bambini della Biblioteca arcivescovile udinese. L’ultimo intervento, sempre finanziato da Tommaso Calice, sul soffitto dell’aula, interessa quello della profonda galleria dell’organo, dove Antonio Schiavi dipinge un tondo, di chiara ascendenza tiepolesca, con un Angelo alla tuba, affiancato da un putto con flauto, violino e carta da musica.

I quattro riquadri affrescati

Gli altri affreschi

Dopo il ciclo nella volta della navata Antonio Schiavi affrescò quattro riquadri sui quattro pilastri d’angolo concavi: il Sacrificio di Melchisedec, l’Adorazione dei pastori, l’Adorazione dei Magi e il Sacrificio di Isacco. I due Sacrifici (di Melchisedec e di Isacco) si trovano sui pilastri rispettivamente di sinistra e di destra, prossimi all’ingresso, mentre le due Adorazioni (dei pastori e dei Magi) occupano quelli prossimi all’abside.

Il Sacrificio di Melchisedec rimanda al racconto biblico ed è ambientato entro un edificio in cui la presenza di ricche suppellettili sacre ci restituisce il senso della storia e dell’antico, i personaggi enfatizzano attraverso una gestualità perentoria il racconto biblico. Abramo riceve la benedizione prostrato a terra; sull’altare sta il pane, mentre un angelo in volo, di chiara derivazione tiepolesca, porge a Melchisedec, in candide vesti sacerdotali, il calice eucaristico che, insieme con il pezzo di pane sull’altare, può essere inteso come prefigurazione dell’Ultima Cena.  

 

Le due Adorazioni dei pastori e dei Magi si sviluppano con andamento orizzontale, dilatato rispetto a quello compresso delle analoghe scene realizzate da Nicola Grassi o Giambattista Tiepolo. Segnatamente partecipata quella dei pastori, ambientata all’interno di una credibile stalla, con veritiere figure di popolani ad animare una scena in cui le linee compositive concorrono a focalizzare l’attenzione sulla Vergine che guarda amorevolmente il bimbo. A sinistra la austera figura di San Giuseppe. Lo sposo di Maria è leggermente piegato in avanti con una mano tesa a porgere una carezza al Bambino che giace adagiato su un candido panno in una mangiatoia riempita di paglia ed è circondato da quattro pastori che portano i poveri doni di gente modesta, mentre due angioletti incorporei sembrano intonare il Gloria in excelsis.

 

L’Adorazione dei Magi è resa con un tripudio di colori più brillanti e con ricercatezza di particolari. Lo spazio è delimitato da una palizzata e da un pilastro, che sovrasta rocchi di colonne e pietre squadrate. La Madonna porge il Bambino in fasce alla venerazione del vecchio Mago prostrato e che ha deposto il prezioso dono ai piedi del Salvatore. Dietro a lui, pronti ad imitarlo, i suoi due compagni, con i paggetti che guardano con curiosità, mentre spuntano dal fondo due figure del seguito. San Giuseppe sta in disparte a guardare con distacco la scena, appoggiato ad un bastone. E’ interessante notare come il volto di San Giuseppe “ricalchi” quello della medesima figura presente in una tela con l’Adorazione dei Magi conservata presso l’Istituto delle Dimesse di Udine (di anonimo autore, ma con qualche dubbio attribuita a Francesco Fontebasso o a Giovanni Battista Pittoni), che è stata presa a modello dallo Schiavi che ne rende però una versione impoverita.

L'altare delle anime

Sulla parete destra dell’aula il primo altare che si incontra è quello delle Anime purganti. La presenza di una confraternita delle Anime del Purgatorio è documentata fin dall’inizio del Settecento. L’altare fu iniziato nel 1792 da un certo «Peschiutti da Gemona» e fu completato nel 1803. Costruito in marmo, presenta un semplice paliotto con al centro, in rilievo, una scena richiamante le anime purganti e le fiamme del purgatorio dipinte di colore rosso. Due colonne marmoree con capitello corinzio reggono un fastigio con due angeli di buona fattura, architettura ripresa in tutti quattro gli altari presenti nella navata.

 

La pala Anime purganti è firmata e datata (1803) da Francesco Pellizzotti, il “mistrùt” nato a Villamezzo di Paularo nel 1740, figlio del cramaro Giovanni Battista che operava in Moravia. In alto, tra le nubi, il dipinto mostra la Vergine con il Bambino, circondata da angeli, che rivolge lo sguardo in basso, verso un gruppo di anime immerse nel fuoco del purgatorio; quattro angeli scendono lateralmente a liberarle (afferrandole per le ascelle, porgendo con grazia la mano, accompagnando con levità il volo dell’anima che sale liberata). Al centro domina la figura di S. Giacomo Maggiore con il bastone in mano, nel ruolo di conduttore della anime purganti verso il Cielo.

Approfondimento

L’impianto iconografico riprende quello di un quadro di Gaspare Diziani, Madonna con Bambino e santi alla presenza delle anime purganti, dell’altare delle Anime del duomo di Tolmezzo. Il dipinto del Pellizzotti, forse una delle sue opere migliori, si distingue per vivacità dei colori: una gamma cromatica basata sui rossi e sui bruni distribuiti con pennellata rapida e sicura. Anche l’impaginazione è curata e corretta. La figura della Vergine è particolarmente riuscita, così come lo sono alcuni angeli e, soprattutto, i volti delle anime immerse nel fuoco, volti che, per cura escutiva e forza espressiva, non hanno riscontri nell’opera di Pellizzotti. L’opera, è da sottolineare, è coeva alle sue due grandi tele e agli affreschi del presbiterio. La tela, come quella del vicino altare di San Valentino, è stata oggetto di un restauro in tempi recentissimi.

L’altare dei Santi Valentino e Gerolamo

Dopo aver superato la porta di accesso alla sacrestia settentrionale, da cui si saliva al pulpito, in legno dipinto ad imitazione del marmo con bassorilievi (il calice, la croce, le tavole della legge, la fiamma, le fronde) dorati, ci si trova di fronte al secondo altare del lato settentrionale della navata, quello dei Santi Valentino e Gerolamo, eretto nel 1788 a conclusione della ristrutturazione settecentesca della chiesa. La confraternita di San Valentino era stata fondata dal reverendo Giambattista Linussio nei primi decenni del secolo, mentre quella di San Girolamo aveva radici secentesche. La pala del Pellizzotti (1803), Madonna in trono con Bambino e i santi Valentino, Agostino, Gerolamo e Giovanni Battista, presenta nella parte superiore una Madonna con Bambino su un trono che domina una corte porticata semicircolare, dall’architettura classica. Due putti alati reggono con grazia un tendaggio dietro alla Vergine; la scena del riquadro alto del dipinto è del tutto identica a quella della pala di Francesco Fontebasso raffigurante la Madonna con Bambino e i santi Martino e Carlo Borromeo presente nel duomo di Tolmezzo ed eseguita intorno al 1762-1764 per l’altar maggiore. Il Pellizzotti mutua dalla pala del Fontebasso l’impaginazione: quattro figure sono ai piedi della Madonna e un putto, al centro in basso, su cui si incardina la scenografica composizione. Tuttavia, al di là dell’impianto compositivo, profonde restano le differenze pittoriche.

Il presbiterio e l'altare maggiore

L’altare maggiore

Il presbiterio è dominato dall’altare in marmo bianco di Carrara che Iacopo Linussio donò alla chiesa in cui era stato battezzato. Presenta lateralmente le statue dei Santi Vito e Modesto, di buona fattura anche se espressione di una cifra stilistica convenzionale. La mensa è posta sopra una gradinata di tre gradini in marmo rosso e presenta un classico decoro in rilievo che incornicia un calice con l’ostia. È addossata al basamento posteriore che sostiene, su due pilastri laterali, le statue dei due santi patroni, Vito a sinistra e Modesto a destra, entrambi reggono un ramo di palma, segno del loro martirio. Nella parte centrale si eleva un elaborato tabernacolo barocco, sostenuto da quattro colonne con capitello corinzio, che si conclude con una corona marmorea su cui svetta il Salvatore con vessillo dorato. La porta del tabernacolo è stata dipinta esternamente con una tecnica difficile ed inimitabile di pittura su metallo, con fogli d’oro zecchino e ossidi metallici, da Antonio Schiavi che vi ha riprodotto un Ostensorio. Questo, assai elaborato con due angeli che reggono l’ampia gloria a sole con al centro la teca in cristallo, è molto simile all’ostensorio Settecentesco che la chiesa di S. Vito conserva nell’originale custodia in cuoio battuto. Dopo il recente restauro della chiesa a seguito del terremoto del 1976, l’altare è stato riportato allo splendore ottocentesco. Due serie di candelabri in materiale argentato di buona fattura sono posti in doppia fila sulle predelle in legno dipinto che affiancano il tabernacolo marmoreo; tra i candelabri, sono posti quattro reliquari, due per parte, a forma di ostensorio, in legno scolpito e stucco dorato.

I dipinti del Pellizzotti

Giovanni Francesco Pellizzotti nel 1803 dipinse due grandi tele per le pareti del presbiterio, La moltiplicazione dei pani e dei pesci e Le nozze di Cana. Lo conferma una nota del sacerdote Da Pozzo nelle sue Poche memorie sulla Valle e Parrocchia di Incarojo: «Questo pittore nell’anno 1803 dipinse pure i due quadri parietali ed il soffitto del coro, ricevendo in compenso venete lire 625,12». Nello stesso anno si cimentò nell’unica opera fresco che è documentata nella sua produzione: il soffitto del coro e i pennacchi della volta. La cupola, di semplice struttura, presenta, entro una cornice, la Trinità in Gloria con i personaggi adagiati su nuvole che trasbordano nell’atmosfera sottostante con putti nel punto di raccordo invero non felicissimo. Alla base della cupola si affacciano angeli e putti festanti, distribuiti in tre gruppi. Cherubini completano la scena che è immersa in colori chiari di un cielo rosato e dorato. Nei pennacchi della cupola troviamo i Quattro Dottori della Chiesa, Sant’Agostino e San Gerolamo nei due verso la navata; Sant’Ambrogio e San Gregorio Magno in quelli verso l’abside. I colori sono tutti nelle gamme dei bruni e dei grigi, ma luminosi.

Approfondimento

Le grandi tele (360x180 cm) sulle pareti del presbiterio, sopra gli stalli lignei della cantoria sono, a destra la Moltiplicazione dei pani e dei pesci, a sinistra le Nozze di Cana. La Moltiplicazione dei pani e dei pesci narra il celebre episodio di Giovanni. Il Pellizzotti lo ambienta in una radura dove Cristo è seduto su una pietra squadrata sotto alcuni alberi, circondato dalla moltitudine di fedeli, in atto benedicente sui «cinque pani d’orzo e tre pesci» che l’apostolo Andrea gli porge in un canestro di vimini. Lateralmente altri discepoli iniziano la distribuzione. Per Giorgio Ferigo, il Cristo assiso, isolato nel centro del quadro, è fedelmente ripreso dalla figura del Cristo dell’Ultima Cena degli Zoccolanti di Augsburg di Nicola Grassi e allo stesso pittore si può riferire la figura del discepolo che distribuisce i pani sulla sinistra, del tutto simile al San Giovanni Evangelista del ciclo di Ampezzo. Il Pellizzotti, che alla sua morte il 15 gennaio 1818 era definito «egregius pictor», risultava per i camerari della collegiata di San Pietro un «pittore copista». Non fu allievo del Grassi, ma al pittore di Formeaso si ispirò per moltissimi particolari delle sue opere. Copia del Grassi è infatti anche il dipinto dirimpettaio, le Nozze di Cana. I personaggi sono disposti attorno ad un tavolo ad U ricoperto da una candida tovaglia che mostra nette le pieghe di un’accurata stiratura. Al centro la sposa in bianco con un elegante fazzoletto con nappine, parla con due invitate, mentre lo sposo sta un po’ discosto, isolato e preoccupato. Gesù e Maria sono tra gli invitati, all’estrema destra del quadro. La pennellata del Pellizzotti appare sicura nel campire larghe zone, definendo i particolari dei volti e delle vesti con una tavolozza chiara, con colori che sono tipici del catalogo del Grassi. 

Le sacrestie

Dal presbiterio, attraverso due porte si accede alle sacrestie. Ora è utilizzata solo quella volta a meridione, essendo usata come deposito di complementi di arredo quelle a settentrione. Entrambe sono affiancate lateralmente da armadietti a muro con la porta in legno di noce in noce, elegantemente scolpita e con un intarsio ad indicare il contenuto: S. Reliquiae in quello di sinistra, e Olea Sacra, quello di destra.

Approfondimento
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I due confessionali che si trovano ai due angoli smussati prossimi al presbiterio, sono opera di un bravo intagliatore di Paularo, Leonardo Sbrizzai, detto Muini, contemporaneo ed omonimo di Carlo che si dilettava anche in affreschi di devozione popolare sulla facciata di case e di stalle. Entrambi operarono nella seconda metà dell’Ottocento.

Molti dei banchi in noce sono originali. Alcuni portano ancora lo stemma delle famiglie cui era riservato, come i Calice e i Linussio.

Uno dei mestieri più apprezzati fra i lavoratori di Paularo era quello del lapicida. L’abilità degli scalpellini è ancora ben conservata nelle modanature architettoniche degli edifici storici, nelle ampie scalinate in pietra, in qualche caminetto in marmo locale, nei grandi secchiai in pietra sempre presenti nelle ampie cucine delle case più antiche. Nella chiesa di S. Vito sono presenti varie opere di buoni lapicidi, tra cui due acquasantiere e il fonte battesimale. I marmi rossi usati sono certamente locali, quelli di Ramaz-Malalastra, dove i Calice gestivano una cava. Il battistero con ogni probabilità è quello originale cinquecentesco. Purtroppo la corona originale è stata fortemente alterata, coperta com’è da modeste pitture ad olio.

Elegante e ben conservato è il lavabo da sacrestia in marmo bianco con decorazioni ad intarsio in marmo rosso. Lo sovrasta un grande giglio di buona fattura e risalirebbe alla vecchia chiesa demolita.

L'altare della Madonna del Rosario

L’altare della Madonna del Rosario

Scendendo nell’aula, a percorrere la parete sinistra (volta a meridione), si incontra per primo l’Altare della Madonna del Rosario. In una nicchia è posta una statua lignea della Madonna con Bambino in trono, scolpita verso la metà del Novecento da artigiani di Ortisei. La testa della Vergine sarebbe (ma i dubbi sono legittimi) quella di un precedente simulacro che la tradizione vuole proveniente dall’Ungheria, ricoperto di vesti consutili. Poiché le leggi liturgiche vietavano nelle chiese l’uso di statue vestite fu sostituita dalla statua attuale che conserva le due corone e lo scettro in lamina d’argento originali. La devozione dei fedeli a questa Madonna è manifestata con un discreto numero di ex voto, in gran parte dispersi, di semplice fattura.

Approfondimento
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La nicchia occupata dalla statua della Madonna è circondata da quindici piccoli dipinti olio su rame, alcuni appena leggibili, raffiguranti i 15 Misteri del Rosario, quella che si chiamò la via del Rosario. La tradizione orale assegnerebbe i 15 dipinti della Via del Rosario di Paularo a Francesco Pellizzotti che sarebbe stato anche l’autore dei dipinti che illustravano le stazioni della Via Crucis, posti all’interno dei capitelli eretti nel 1759. Di rilevante pregio sono le cartagloria con raffinate cornici in argento del Settecento. Opera di argentiere veneziano anonimo, le carteglorie dell’altare della Madonna del Rosario presentano cornici in argento sbalzato su anima in legno, elaborate con motivi fitomorfi che disegnano dei riccioli conclusi con la testina di un putto. Quella centrale presenta in alto, al centro, in una cornice di testine alate, una bella Annunciazione.

L’altare del Crocifisso

L’ultimo altare, del Crocifisso, donato nel 1783 dai fratelli Pietro Nicolò e Nicolò Del Negro, conserva un bel Cristo ligneo in croce, racchiuso da una elegante cornice dorata; il fondale è in marmo nero screziato, decorato con auree stelle, mentre le pareti laterali mostrano la stessa decorazione su un fondale azzurro. Merita uno sguardo attento l’angelo seduto sul tratto di sinistra del fastigio dell’altare marmoreo. È l’unico angelo che copre il viso con un fazzolettino, in una posa che ricorda il pianto. Forse per sottolineare il dolore e la pietà che il Crocifisso sottostante muove nei fedeli.

Sull’altare del Crocefisso è posto il grande tabernacolo in legno scolpito e dorato, recentemente restaurato, e potrebbe non essere ascritto al vecchio altare smembrato in occasione del rifacimento Settecentesco della chiesa, come finora si è ritenuto. Secondo la descrizione tramandata dal Capellani, sulla portella «vi era inciso il Redentore in bassorilievo in atto di essere posto nel sepolcro da due angeli». In quello presente sull’altare del Crocifisso la portella mostra una resurrezione. Potrebbe essere quello descritto dal vicario Agostino Bruno durante la visita pastorale del 1602, quando parla della conservazione dell’eucaristia in uno scrigno in legno decorato e dorato. Giustificherebbe questa ipotesi anche la reminiscenza “medievale” dei due angeli che fanno da cariatidi e la faccia colorata che fa da chiave d’arco della portella. L’interno del tabernacolo è rivestito in velluto, certamente antico.

Approfondimento

Il grande Crocifisso, intagliato a grandezza lievemente inferiore al naturale, è di buona fattura, degna di qualche artigiano o bottega di un certo rilievo. La struttura anatomica del corpo è accuratamente descritta dall’intagliatore che con efficacia scolpisce il rilievo del costato, le gambe leggermente piegate e perfette nel dettaglio muscolare. Il volto è fissato nella drammatica espressività della esalazione dell’ultimo respiro. Inclinata sulla spalla destra, gli occhi chiusi nell’approssimarsi della morte, la bocca aperta che lascia scorgere la dentatura superiore, la testa del Cristo è cinta dalla corona di robuste spine intagliata, poggiata sulla chioma che, sulla spalla destra, si scioglie in un a ciocca ondulata. Il bacino è coperto da un elaborato e singolare drappeggio. Merita soffermarsi sulla policromia utilizzata per il perizoma, qui rappresentato in modo poco tradizionale, non annodato su un fianco, ma come un ampio drappo avvolgente sorretto da due corde in vita. Le decorazioni, fatte a tempera su gesso, consentono di leggere bordi con fiori azzurri e qualche pennellata rossa. La figura del Cristo crocifisso cattura l’attenzione per la fisicità realistica, per la drammatica espressività, caratteri propri di un linguaggio rinascimentale maturo. Il Crocifisso è protetto da un cristallo inserito in una cornice, probabilmente veneziana, di rara eleganza e raffinata esecuzione.

Approfondimento

Da un Inventario delle suppellettili presenti nelle chiese della valle d’Incaroio redatto in occasione di una visita pastorale nel 1700, per la parrocchia di S. Vito, e quindi relativo alla vecchia chiesa demolita, l’elenco è decisamente ricco. Tra l’altro si citano 5 calici, 2 cibori, 1 ostensorio, 1 pisside d’argento, 2 croci d’argento e 2 d’ottone, 1 turibolo con navicella d’argento e uno d’ottone, 10 candelabri d’ottone, 7 doppieri, 14 mi[e]ssali, 21 pianete. S trattava quindi di una ricca disponibilità di suppellettili, molte in argento, e di paramenti sacri. Per fare un confronto, nello stesso Inventario, per la chiesa di Dierico, solo due croci risultano d’argento, per i 3 calici non si forniscono dati sul materiale, e nel complesso le suppellettili risultano limitate (3 lampade d’ottone, 8 candelieri). Molti oggetti sono ancora conservati, mentre di altri si è persa la esatta collocazione. Citeremo qui due esempi di argenteria di un certo pregio: una pace in argento sbalzato e una navicella per incenso.

La pace della parrocchia di Paularo è del tipo “a tavoletta”, in argento sbalzato di buona fattura, ha una elegante cornice a motivi fitomorfi, e rappresenta i santi titolari Vito e Modesto, nell’iconografia classica con elmo, corazza e gambali, una lancia in una mano e la fronda di palma nell’altra. Sul retro è presente la maniglia che funge sia da impugnatura che da appoggio.

L’esemplare di navicella per incenso conservato nella parrocchia di Paularo ha il piede a base circolare, finemente sbalzato a motivi fitomorfi che sono ripresi anche sul corpo. Il coperchio a due valve incernierate al centro, è privo dei manici e del cucchiaino usato per versare l’incenso nel turibolo.

Le altre chiese di Paularo

L’Oratorio di Sant’Antonio

A fianco del palazzo Calice, edificato nel 1591 dal nobile Floreano Calice e che rappresenta uno straordinario esempio di architettura, sorge l’oratorio di Sant’Antonio costruito nel 1674 da Tommaso Calice (1625-1694), forse ampliando una preesistente cappella con architettura gotica. La costruzione fu collegata al palazzo mediante un passaggio sostenuto da un arco a tutto sesto e la sopraelevazione di un edificio esistente, forse adibito a magazzino e cantina, di epoca certamente anteriore.

L’Oratorio è una pregevole costruzione dalla volumetria contenuta. Presenta cella rettangolare e un piccolo abside poligonale, entrambe con soffitto a vela. Il soffitto dell’abside è costolato. Tutte le aperture hanno cornici in pietra e in “tof”. Lo stretto fronte principale presenta aperture con modanature rettilinee ed inferriate alle finestre. Esternamente, sopra il fronte dell’edificio limitrofo si erige un campaniletto a vela, su di un cornicione perimetrale in “tof”. Dall’abside si accede ad un piccolo vano destinato a sacrestia, anch’esso con il soffitto a volte, inserito nell’edificio limitrofo.

Usata come cappella privata dalla nobile famiglia, nel Settecento divenne ‘Oratorio pubblico’ anche in conseguenza della ristrutturazione della vecchia chiesa parrocchiale di San Vito. In seguito la chiesetta, per le sue ridotte dimensioni e per la sua posizione centrale, fu utilizzata per le funzioni religiose in periodo invernale. Conservava arredi religiosi di un certo pregio: un altare ligneo barocco, alcuni quadri, delle statue ed un pregevole cassettone da sacrestia. Trasformata in un deposito di legname, solo da un paio di decenni è stata acquisita dal Comune di Paularo che l’ha destinata ad usi più decorosi (vi si tengono conferenze e concerti). In qualche occasione la chiesetta è stata utilizzata per mostre temporanee d’arte ed esposizioni fotografiche.

Approfondimento

Nel 1944 l’arcivescovo Nogara, rispondendo ad un’istanza del parroco scriveva «concediamo il nulla osta affinchè possa venire ridotto in usum profanum non sordidum (can. 1187 C.J.C.). Esortiamo vivamente i proprietari di detto oratorio a donare alla Chiesa parrocchiale di Paularo quanto di sacro ed utile si trova in esso (altare in legno, armadietto con reliquie di alcuni santi, un calice d’argento, un vecchio armadio con i relativi apparamenti in esso acclusi, ecc. ecc.)». L’altare fu portato al Museo diocesano d’arte sacra; un pregevole armadio di sacrestia intarsiato, l’armadietto con le reliquie, il calice, un’acquasantiera in marmo rosso furono trasferiti nella nuova Cappella della Beata Vergine di Lourdes ed il resto fu disperso.

Chiesetta dei Santi Fabiano e Sebastiano

A un centinaio di metri dal palazzo Calice di Villafuori, la chiesetta gentilizia si affaccia con il fronte principale ad ovest, in una curva a gomito della stretta strada. Risale al secolo XVII, costruita nel 1688 dal ramo della famiglia Calice che si era trasferito nella casa di famiglia esistente sull’ampio terrazzo di Villafuori. Venne eretta su fondo e a spese dei fratelli Giacomo e Pietro Calice; quest’ultimo diventato sacerdote, vi esercitò il ministero a servizio della famiglia e dei numerosi inservienti fino alla morte. Seguirono altri sacerdoti di famiglia. In seguito, quando la popolazione della borgata aumentò, si fece titolo di ‘Oratorio pubblico’.

La chiesetta è caratterizzata da un’aula rettangolare con l’abside poligonale dal quale si accede lateralmente ad un vano irregolare destinato a sacrestia. L’aspetto esterno dell’edificio è decoroso, con cornici e stipiti in pietra grigia, modanate quelle delle aperture sulla facciata. Un cornicione di pietra nel sottotetto è sorretto da fitti “barbacani” di sostegno. Il portale d’ingresso rettilineo, con timpano, è sovrastato dallo stemma gentilizio e da un campaniletto monoforo. Nell’interno, pavimenti lastricati di pietra ed elementi di marmo grigio e rosa fior di pesco. L’altare marmoreo in marmi policromi è dei gemonesi Pischiutti, la mensa è sormontata dalle statue in pietra bianca raffiguranti l’Assunta e i Santi Fabiano e Sebastiano.

Sacello di S. Maria di Loreto

La frazione di Villamezzo, che fu centro importante del Comune delle Tre Ville, ha diversi edifici storici di un certo pregio. Nella porzione più alta, lungo l’acciottolato che l’attraversava verticalmente, è stata recuperata dal degrado e dall’incuria una chiesetta edificata nel 1745. A pianta ottagonale, il piccolo edificio è rialzato dal piano stradale sul quale si affaccia con il fronte principale, costituito da tre facce del prisma ottagonale. La porta centrale d’ingresso è incorniciata di pietra, con sovrastante timpano, una nicchia ed infine coronata da un elaborato campaniletto monoforo. Il tutto è incorniciato di ‘tof’ come le due piccole aperture laterali, opposte ed inferriate a rombi. Lo schema attuale è del XVIII secolo come riportato nell’iscrizione collocata sopra il portale d’ingresso, ma l’impianto originale è anteriore al 1700, dato che nel 1709 un preesistente sacello venne distrutto, come tutta la Villa, nella notte di Natale da un devastante incendio.

La Cappella della Beata Vergine di Lourdes

Costruita negli anni precedenti la II Guerra mondiale, la cappella è stata consacrata l’11 febbraio del 1936. Voluta dal parroco don Primo Zuliani, infaticabile nella creazione di spazi destinati alla comunità (asilo infantile, aule per il catechismo, sala per proiezioni cinematografiche e rappresentazioni teatrali), la cappella doveva favorire le persone più anziane che mal sopportavano la ripida salita alla chiesa di San Vito per le funzioni religiose. In poco tempo quasi tutte le funzioni furono infatti trasferite nella nuova chiesa in centro del paese, vicina al Municipio ed alle scuole.

L’edificio fu eretto sotto la direzione di un bravo artigiano, Giovanni Batta Segalla ‘Crodi’ che compare in primo piano nella fotografia scattata dal figlio, il noto fotografo Giacomo, in occasione della conclusione dei lavori di erezione dei muri della chiesa. Lo stesso artigiano ha costruito in gesso dipinto la parete rocciosa e la grotta che sta sopra l’altare e nella quale sono collocate le due statue della Madonna e della Santa Bernadetta, riprese durante un’apparizione. Ai lati dell’altare sono state poste due statue lignee raffiguranti il Sacro Cuore e Sant’Antonio da Padova.

Nell’immediato dopoguerra la chiesa fu ampliata mediante l’aggiunta di un coro separato dall’aula da 4 colonne con coronamento dorico. Il soffitto fu sistemato in finti cassettoni con dipinti geometrici e in toni spenti, rappresentanti la simbologia della fede cristiana. Nel 1960 fu completato il campanile e nell’anno successivo fu creato un atrio mediante l’erezione di un pronao di non eccelso disegno architettonico, con quattro pilastri e il timpano rivestiti in lastre di travertino. Affiancato alla chiesa si sviluppa un complesso edilizio assai articolato che comprende scuola materna, appartamenti, aule e la rinnovata Sala Unione, dedicata al monsignor Zuliani che volle intensamente il complesso.