Il duomo di Mortegliano e altre chiese
Duomo - Santissima Trinità - San Nicolò
La cappella della pala di Giovanni Martini (Duomo)
Giovanni Martini, Pala d'altare, Duomo Mortegliano, 1523-1526
La cappella del Sacro Cuore di Gesù (Duomo)
Carlo Picco, Altare del Sacro Cuore (già della Santa Croce), sec. XVII
Il presbiterio (Duomo)
Duomo Mortegliano, Altare maggiore
La cappella della Beata Vergine del Rosario (Duomo)
Duomo Mortegliano, Cappella Beata Vergine del Rosario
La chiesa della Santissima Trinità
Chiesa della Santissima Trinità, Mortegliano
L'interno (chiesa della Santissima Trinità)
Chiesa della Santissima Trinità, Mortegliano, interno
La chiesa d San Nicolò
La Chiesa campestre di San Nicolò in Arnaces, Mortegliano
Il duomo di Mortegliano e altre chiese
Il Duomo
Il duomo arcipretale dei santi apostoli Pietro e Paolo si erge al centro dell’abitato di Mortegliano, sul luogo della cortina, l’opera di fortificazione presente anticamente in numerosi paesi della pianura friulana. Nel centro della cortina di Mortegliano, insediamento la cui antichità è stata confermata da cospicui ritrovamenti archeologici, sorgevano l’antica parrocchiale, il campanile e un’imponente torre, nella quale gli Strassoldo, giurisdicenti del paese, amministravano la giustizia.
La storia
Il primo atto ufficiale risale al 6 dicembre 1857, giorno in cui fu nominata dai capifamiglia la commissione per la fabbrica del duomo e ne venne redatto lo statuto.
Nel 1858 le autorità approvarono un primo progetto dell’ingegnere architetto Andrea Scala (1820-1892), il quale concepì una struttura a pianta ottagonale ineguale richiamante lo stile gotico; tale disegno fu in seguito modificato più volte.
Nel 1862 il giovane don Marco Placereani, appena nominato pievano di Mortegliano, respinse il primo disegno proposto e richiese a Scala un’opera ancora più ampia.
Il 1864 è l’anno della fondazione: dopo la demolizione della quattrocentesca chiesa di San Paolo, della torre difensiva e di alcune delle case poste sulla cortina, sabato 23 aprile la prima pietra del nuovo duomo fu benedetta dall’arcivescovo di Udine Andrea Casasola.
I progetti e i lavori per la nuova costruzione furono particolarmente complessi, e tra ripensamenti, correzioni e varie interruzioni proseguirono fino al 1920.
Venerdì 26 novembre 1920, con l’arrivo dell’arcivescovo di Udine mons. Antonio Anastasio Rossi, ebbero inizio le celebrazioni per la consacrazione del duomo, avvenuta con straordinaria solennità nel giorno successivo. Nell’occasione venne restituito alla parrocchia l’antico titolo dei santi apostoli Pietro e Paolo.
Per la costruzione dell’imponente edificio nel 1863 era stata incaricata l’impresa di Girolamo D’Aronco (il padre del celebre Raimondo), ma nel 1865 il lavoro, per motivazioni economiche, fu affidato a manodopera locale.
Ma negli stessi anni si pose per i morteglianesi e per il loro pievano una questione che rischiò di compromettere l’intera impresa. Scala aveva infatti progettato per il duomo una copertura a cupola che ben presto apparve troppo schiacciata. Il primo intervento che si rese necessario fu dunque l’innalzamento di otto piloni angolari destinati a consolidare le murature e a sostenere una copertura di peso inevitabilmente superiore. Su tali piloni furono costruite, nel 1877, le guglie in cotto tuttora visibili. Per quasi un trentennio la costruzione fu interrotta: del grande duomo erano stati edificati soltanto i muri perimetrali dell’ottagono e delle cappelle, nonché le guglie.
Nel 1884 il nuovo pievano, Pietro Italiano, si rivolse a Scala per conoscere l’ammontare della spesa per la cupola modificata, e in seguito a Giovanni Falcioni, per avere un progetto più economico, che prevedeva un’ossatura in ferro e ghisa, un’orditura in legno, una cupola in zinco. L’iniziativa irritò irreparabilmente Scala, il quale preferì troncare i rapporti e verosimilmente distrusse i propri progetti di completamento.
La vicenda si riaprì il 12 luglio 1898, quando la Società privata morteglianese per la continuazione dei lavori del duomo, presieduta dal pievano Lodovico Giuseppe Pascutti, rese pubblico un avviso di concorso per la copertura dell’ottagono e dei corpi poligonali sporgenti. La selezione diede adito a una polemica tra coloro che non ritenevano opportuna una copertura a cupola in una costruzione goticheggiante e coloro che la reputavano coerente con la tradizione architettonica italiana. Tuttavia, dopo aver riconosciuto che i progetti vincitori non erano attuabili, entrò in gioco l’ingegner Carlo Angelo Ceresa di Torino, uno dei maestri del Liberty piemontese, ma l’esecuzione del suo colossale progetto, già avviata tra settembre e novembre 1899, fu sospesa nel febbraio 1900 in quanto prevedeva l’innalzamento di quattro pilastri interni a sostegno della cupola.
Nel 1903 fu respinto in modi analoghi anche il progetto di Attilio De Luigi di Gemona. Nel 1900 anche l’ingegnere di Torsa Antonio Piani aveva allestito un elaborato piano di completamento che prevedeva una cupola poliedrica a sesto rialzato, cava internamente e terminante con una lanterna. Frattanto, la gravità della circostanza e la difficoltà di trovare una soluzione suggerivano al nuovo pievano Luigi Placereani di abbattere il fabbricato esistente per erigere invece un tempio a Sant’Antonio di Padova, il cui progetto venne affidato all’ingegner Borichella di Vicenza.
All’inizio del 1906 avvenne la svolta: l’ingegner Piani, per ragioni economiche, rinunciò alla cupola, più coerente con le intenzioni di Scala, e prestò invece la propria consulenza per la copertura a tenda. Nella primavera dello stesso anno prese, finalmente, avvio la costruzione e la posa delle capriate lignee.
Allo scoppio del primo conflitto mondiale, nel 1914, l’edificio non era ancora completato. La guerra, quindi, provocò l’ennesimo blocco dei lavori e il differimento della costruzione del primo dei due piccoli campanili che si sarebbero dovuti innalzare ai lati dell’abside. Si proseguì invece, dall’ottobre al dicembre 1914, con la realizzazione della monumentale gradinata esterna e dei portoni d’ingresso (su disegno di Piani, il quale continuava a seguire i lavori), della sacrestia, della gradinata di accesso al presbiterio e della pavimentazione di quest’ultimo in marmo bianco e bardiglio scuro.
Soltanto nel maggio del 1920, dopo anni di forzata inattività, si poterono avviare i numerosi lavori di riparazione dei danni di guerra, con la posa dell’altare maggiore e della nuova balaustra del presbiterio, opera dei fratelli Merluzzi di Sevegliano.
La memorabile inaugurazione del duomo non segnò affatto la conclusione dei lavori. Alla fine del 1920 fu costruita la gradinata di accesso alla futura cappella della Vergine, completata con la balaustra proveniente dalla chiesa della Santissima Trinità. Le attività costruttive si protassero pure negli anni successivi: nel 1927 si inaugurò l’organo «Mascioni» e nel 1930 il pittore Mario Sgobaro decorò la cappella della Vergine.
Soltanto dopo alcuni anni si procedette con altri importanti lavori: la posa dell’attuale pavimentazione in marmo rosso di Verzegnis e paglierino di Chiampo (nella quaresima del 1942), la trasformazione in stile del soffitto del presbiterio (ottobre 1942), la costruzione nel 1943 del pulpito disegnato dall’architetto Pietro Zanini (1895-1989); il rivestimento in marmo della cappella del battistero (1944), l’applicazione delle nuove vetrate (1950-51), la decorazione del presbiterio (1951-52) e delle cappelle laterali maggiori e minori (1954, esclusa quella della Vergine).
La cappella della pala di Giovanni Martini (Duomo)
La cappella minore a destra dell’ingresso principale è interamente occupata dall’opera d’arte più importante custodita nell’edificio. La pala d’altare in legno dipinto e dorato è stata realizzata verosimilmente fra il 1523 e il 1526 dall’artista friulano Giovanni di Martino Mioni (ca. 1470-1535) su commissione dei camerari del comune. Le difficoltà di pagamento incontrate dai morteglianesi furono all’origine di un’aspra controversia con l’artista e di un interdetto che gravò sul paese dal 1 al 16 dicembre 1526.
L’opera, che ornava l’antica pieve di San Paolo, dove fungeva da altare maggiore, fu sistemata nella chiesa della Santissima Trinità il 19 marzo 1864, al momento della demolizione della matrice.
Più volte, e in particolare intorno al 1907, rischiò di essere alienata a causa delle difficoltà economiche legate alla costruzione della nuova chiesa. D’altra parte la Soprintendenza, che pure l’aveva fatta ripulire nel 1926, a lungo non ne permise il trasferimento nel presbiterio del duomo. Il trasporto avvenne comunque nell’agosto del 1935, soprattutto a causa del deplorevole stato in cui versava la vecchia parrocchiale. La pala trovò posto dietro l’altare maggiore del tempio.
Considerata il massimo capolavoro della scultura lignea in Friuli, l’opera è stata sottoposta dal 1983 al 1986 a un restauro completo, in seguito al quale è stata decisa l’attuale collocazione.
Anche in un ambiente come l’attuale, di gran lunga più ampio di quello originario, le dimensioni dell’altare appaiono impressionanti: l’altezza è di 6,01 e la larghezza è di 3,7 metri, per quasi un metro di profondità; le statue, dovute anche alle mani dei collaboratori, sono 63 (in origine probabilmente 65), mentre ben 42 sono le colonnine che arricchiscono un ordito architettonico ormai rinascimentale.
Nel suo complesso l’opera non è soltanto una eloquente rassegna dei santi ausiliatori più venerati e più vicini alla sensibilità popolare, bensì una grandiosa e profonda meditazione sulla vita della Vergine, tanto da essere paragonata a una lauda antica o avvicinata allo stile narrativo dell’antichità classica.
L’importanza della pala è motivata indubbiamente dalle dimensioni grandiose e dalla complessità strutturale che la rendono un esempio unico per tutta l’altaristica lignea italiana, ma soprattutto dal fatto che essa offre la possibilità di studiare il delicato passaggio della scultura lignea locale a una sensibilità rinascimentale che fa prudente sintesi di influenze nordiche e suggestioni dell’Italia settentrionale, specialmente veneziane.
Reso marginale l’allestimento tradizionale a figure isolate nelle rispettive nicchie, l’impianto architettonico insiste su scene non delimitate da un telaio strutturale, bensì aperte nello spazio, e soprattutto volte a presentare in forma narrativa un messaggio teologico ampio e articolato.
La lettura del'altare
La lettura inizia dal centro dell’elegante predella, dove la portella del tabernacolo è lavorata a bassorilievo con l’immagine del Christus passus sorretto da due angeli. Nel ripiano inferiore è raffigurata la deposizione di Cristo dalla croce, con la pietà, Nicodemo, Giovanni, Giuseppe d’Arimatea, tre Marie. Fra le colonnine si riconoscono san Pietro e san Paolo, mentre ai lati trovano posto san Giovanni Battista e sant’Osvaldo
Il secondo riparto presenta la dormitio Virginis, san Pietro in abiti pontificali, gli apostoli in preghiera; si tratta di una scena ancora terrena, e dunque separata dalla precedente e dalla successiva. Fra le colonne sono posti i santi invocati per la buona morte, ossia l’arcangelo Michele e san Giuseppe con il bambino Gesù. Alle estremità si trovano due dei padri della chiesa occidentale, san Gregorio e sant’Agostino; ai lati sono collocati san Giacomo e san Mauro.
Nel terzo registro Cristo accoglie la Madre nel regno dei cieli. I santi Floriano e Ilario sono collocati tra le colonne, i padri Girolamo e Ambrogio agli estremi, mentre san Sebastiano e san Rocco trovano posto ai lati. Nella lunetta, opportunamente distinta ma non separata dal registro sottostante, la Trinità incorona la Vergine. A destra e a sinistra sono riconoscibili i santi Martino e Giorgio. Sulla sommità, tra due angeli, compare san Paolo, patrono della pieve.
La croce astile
Accanto alla pala è stata collocata la croce astile in argento dorato attribuita all’orefice Tiziano Aspetti jr. (ca. 1559-1606). Il nodo a tempietto, cimato da doppia voluta arricciata e concluso a cupolino, reca entro le nicchie le statuine dei santi Pietro Martire, Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena, Domenico, Osvaldo e Paolo. La croce a terminazioni lunate reca il Crocifisso al recto e la Madonna con il Bambino al verso; le estremità presentano quattro le figurazioni consuete: l’Eterno Padre, la Maddalena, la Madonna e san Giovanni su di un lato; gli evangelisti dall’altro.
L’ampio e maturo svolgimento delle figure dei santi dei lobi rende l’opera particolarmente pregevole.
La cappella del Sacro Cuore di Gesù (Duomo)
L’altare marmoreo della cappella maggiore di destra, commissionato nel 1743, proviene dalla chiesa della Santissima Trinità, dove era dedicato alla Santa Croce. L’opera è stata qui ricostruita nel 1922, con aggiunte e modifiche.
La pala della crocifissione, che si trovava in corrispondenza dell’attuale nicchia, era stata richiesta nel 1753 al pittore udinese Giovanni Domenico Ruggeri (o Ruggieri), e dal 2017, dopo il restauro, si trova nuovamente nella collocazione originaria, nell’altro edificio sacro.
Il tabernacolo era stato commissionato nel 1768 per la riposizione del Sacramento nella celebrazione del giovedì santo; è stato poi destinato a conservare le reliquie dei santi. La statua del Sacro Cuore di Gesù è invece stata acquistata nel 1914 presso la ditta «Ferdinand Demetz» di Ortisei, in Val Gardena.
Le decorazioni a queste pareti e a quelle delle cappelle minori, opera di Aldo Scolari e Silvio Salviati, risalgono al 1954 e i rappresentano in otto quadrilobi i simboli e gli strumenti della Passione con, al centro, l’Agnello immolato; dalla sua ferita sgorga la grazia che giunge alle anime attraverso i sacramenti, significati dai sette rivoli.
Anche i confessionali collocati nelle due cappelle maggiori provengono dalla chiesa della Santissima Trinità. Tre di essi risalgono al 1726 e si devono alla mano di Filippo Lanteriis, l’ultimo è stato realizzato nel 1753 dal morteglianese Giovanni Battista Cantarutti. Eleganti intarsi impreziosiscono queste opere.
Il presbiterio (Duomo)
L'altare maggiore
Il primitivo altare maggiore era stato commissionato nel dicembre 1914 allo scultore Giovanni Rampogna, il quale l’aveva preparato nel corso del 1915; essendo stato danneggiato ancor prima della posa in opera a causa dell’occupazione del duomo in tempo di guerra, fu montato soltanto nell’ottobre del 1920.
Dall’agosto del 1943 si pensò alla costruzione di un nuovo altare maggiore, impiegando alcuni elementi del primo manufatto. L’opera fu consacrata il 1 dicembre 1945. Il tabernacolo, progettato da Pietro Zanini, fu aggiunto nella primavera del 1947.
Nel suo complesso, il nuovo intervento sull’altare è dovuto al marmista locale Davide Paroni.
Le statue, realizzate in legno intagliato e dipinto da uno scultore ignoto nel XVIII secolo, provengono dalla basilica della Beata Vergine delle Grazie di Udine.
La decorazione del presbiterio
Le decorazioni del presbiterio sono state realizzate tra la fine del 1951 e l’inizio del 1952 dagli artisti della ditta «Scolari e Salviati» di Padova.
Sulle vele del soffitto sono ospitati i simboli dei quattro evangelisti. Alle pareti compaiono santi apostoli ed evangelisti, vescovi e martiri: guardando l’altare, nella parete sinistra si scorgono Matteo, Bartolomeo, Mattia, Andrea, Ermacora e Fortunato, Paolino e Bertrando; a destra si trovano Giacomo maggiore, Giovanni, Tommaso, Simone e Taddeo, Filippo e Giacomo, Valentino e Nicola. Accanto alle immagini sono indicati i nomi degli offerenti. Non sono mai stati eseguiti i due grandi pannelli in mosaico che erano stati previsti per i riquadri centrali.
Gli artigiani morteglianesi Giovanni Gori e Giuseppe Beltrame hanno costruito, tra il 1952 e il 1953, gli stalli del coro, disegnati dall’architetto Pietro Zanini. Gli intagli sono stati eseguiti dallo scultore udinese Virginio Lodolo.
Il pulpito è stato realizzato tra il 1942 e il 1943 dal marmista Davide Paroni di Mortegliano, ancora su disegno di Zanini.
La cappella della Beata Vergine del Rosario (Duomo)
Nella cappella maggiore di sinistra l’altare marmoreo è opera di Giovanni Battista Cucchiaro e risale al 1738; è l’altare della Vergine che si trovava in precedenza nella chiesa della Santissima Trinità, qui ricostruito nel 1921.
L’altare presenta un doppio binato di colonne di stile corinzio con dadi non allineati alla mensa; la trabeazione sostiene due monconi di ali a doppio saliente sulle quali sono posati due angeli; altri due, di dimensioni più piccole, recano serti di rose e sulla sommità sovrastano la cornice contenuta nel fastigio; il paliotto, ad andamento concavo, porta al centro la consueta cartella ed è ornato in ogni sua parte da rosai intrecciati, così come accade per le parti di altare che stanno ai lati della mensa. La preferenza è accordata quasi ovunque al marmo bianco di Carrara e al rosso di Francia, eccezion fatta per il marmo giallo e per l’africano antico di alcuni particolari.
Le quattro formelle che rivestono i dadi delle colonne sono scolpite in bassorilievo e raffigurano l’agonia di Gesù confortato da un angelo nell’orto degli ulivi, la flagellazione alla colonna, l’incoronazione di spine, la salita al Calvario; le undici che incorniciano la nicchia rappresentano a sinistra la visitazione, la natività, la presentazione al tempio, il dialogo fra Gesù e i dottori; a destra la morte, la risurrezione, l’ascensione e la pentecoste; in alto l’annunciazione, l’assunzione e l’incoronazione di Maria. Nell’insieme i bassorilievi sono dunque dedicati ai quindici misteri del Rosario.
La statua della Beata Vergine del Rosario è stata acquistata nel giugno del 1914 presso la ditta «Ferdinand Demetz» di Ortisei e sostituisce una precedente immagine, probabilmente in marmo.
Le decorazioni del 1930
I quadrilobi delle pareti di sinistra rievocano la battaglia di Lepanto raffigurando una imbarcazione cristiana e una turca; in quelli di destra sono rappresentati la bestia con sette teste che sale dal mare, immagine apocalittica del maligno (Apocalisse 12,3-4), e l’assedio che i turchi posero a Mortegliano fra il 4 e il 5 ottobre 1499 (è ben visibile una ricostruzione della cortina e dell’antica chiesa di San Paolo). Lungo i lati della cappella scorrono iscrizioni tratte da testi biblici e liturgici; a sinistra: per te ad nihilum redegit inimicos nostros (Giuditta 13,22); a destra: cunctas hereses sola interemisti in universo mundo (da una antifona per la solennità dell’Assunta). Al centro sono visibili due angeli di gusto floreale e un rosaio, il cui valore simbolico è chiarito dal sottostante cartiglio che riporta uno dei testi liturgici della festa del Rosario: ego quasi rosa plantata super rivos aquarum fructificavi.
Le decorazioni alle pareti, inaugurate l’11 maggio 1930, sono opera di Mario Sgobaro di Udine.
La balaustra marmorea delimitava in precedenza il presbiterio nella chiesa della Santissima Trinità.
L'altare della Beata Vergine
Proveniente dalla locale chiesa della Santissima Trinità, questo altare fu trasportato in duomo nel 1921. Commissionato a Giovanni Battista Cucchiaro, risale al 1738.
L’altare della Santa Croce, ora del Sacro Cuore
Questo altare proviene dalla chiesa locale della Santissima Trinità ed è stato trasportato in duomo nel 1922, con la dedica al Sacro Cuore (in origine era intitolato alla Santa Croce). Si deve allo scultore di Palmanova Carlo Picco, che l’eseguì tra il 1743 e il 1752.
L’altare era arricchito dalla Crocifissione, richiesta nel 1753 al pittore udinese Giovanni Domenico Ruggeri (1696-1780) e da questi dipinta nell’anno successivo.
La cappella del battistero
Il fonte battesimale in pietra scolpita risale al 1571 e si trova in duomo dal 1921. Fra i tre putti addossati al fusto sono visibili una croce, un cartiglio recante la scritta ece|agnu|s dei e uno stemma, verosimilmente dei conti Strassoldo. Nella fascia superiore della coppa si legge: dominico petri. et mathiussio fassii. camer. m.d.lxxi.
La copertura in rame, risalente al 1692 e attribuita all’artigiano udinese Gioseffo Franco, è squisitamente lavorata a sbalzo a rappresentare putti e diversi ornamenti; manca dalla sommità la statuetta del Battista.
Il lavoro di rivestimento marmoreo della cappella e di posa della balaustra è stato compiuto nell’aprile del 1944.
Alle pareti, i simboli decorativi richiamano gli effetti del battesimo, mentre le iscrizioni sono state ricavate dagli antichi battisteri delle basiliche romane.
Le vetrate
Le attuali vetrate, lavorate a fuoco, sono state eseguite fra il 1950 e il 1951 dalla ditta «Scolari e Salviati» di Padova.
I soggetti delle cinque monofore dell’abside comprendono san Francesco, san Paolo, il buon Pastore (di realizzazione successiva), san Pietro e san Pio X; al posto di quest’ultima immagine, sensibilmente danneggiata nel corso degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, è stata collocata nel corso del 2006 un’opera realizzata dalla ditta «Gibo» di San Giovanni Lupatoto.
La trifora di sinistra nel presbiterio raffigura la Vergine Maria regina della pace e le sofferenze provocate dalla guerra; il medaglione ritrae il pontefice Pio XII; la trifora di destra rappresenta san Giuseppe e alcune scene di lavoro nelle officine, nelle filande e nei campi; il medaglione è dedicato a papa Leone XIII, qui ricordato quale autore dell’enciclica Rerum novarum.
Le quattro trifore del corpo centrale illustrano gli articoli di fede del Credo. La vetrata collocata sopra il battistero rappresenta la creazione del mondo e dell’uomo, la caduta e l’allontanamento di Adamo ed Eva dall’Eden e la Vergine Immacolata (Credo in Deum creatorem). La vetrata sovrastante la porta laterale raffigura la redenzione attraverso la nascita, la passione, la morte, la resurrezione e l’ascensione di Gesù (Credo in Iesum Christum). La successiva, dedicata alla santificazione e allo Spirito Santo, mostra la Pentecoste, i vescovi riuniti intorno al papa, e infine la predicazione del vangelo e la chiamata alla santità, significata da Giovanni Bosco, Maria Goretti e Domenico Savio (Credo in Spiritum Sanctum). L’ultima trifora, sulla vita eterna, riproduce il giudizio finale di Cristo, la risurrezione dei giusti e dei peccatori, l’inferno e il paradiso (Credo vitam aeternam).
Nel luglio del 2009, in occasione del restauro della bussola originaria, la ditta «Gibo» ha provveduto a collocarvi due vetrate: quella di sinistra, di nuova realizzazione, raffigura San Giovanni XXIII; quella di destra, che rappresenta San Pio X, era stata predisposta già negli anni Ottanta del Novecento per sostituire la vetrata con lo stesso soggetto che si trovava nell’abside.
L’organo maggiore, realizzato dalla ditta «Vincenzo Mascioni» di Cuvio (presso Varese), è stato benedetto nel 1927.
Inoltre, è presente l’organo positivo appartenuto al maestro Onorio Barbina (1928-2013), per molti decenni organista della parrocchia.
La chiesa della Santissima Trinità
La storia
Il 16 dicembre 1596, in seguito alla visita pastorale alla pieve di Mortegliano, il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro, avendo preso atto della inadeguatezza della chiesa di San Paolo, consacrata un secolo prima, decretò che venisse edificato un nuovo tempio di dimensioni idonee alla popolazione del paese.
I lavori per la costruzione procedettero di buona lena dal 1601. A causa di difficoltà economiche soltanto cinquant’anni dopo, il 14 aprile 1652, il patriarca Marco Gradenigo potè consacrare l’edificio sacro, sebbene già il 22 maggio 1626 vi fossero state celebrate le cresime.
L’iscrizione dedicatoria, collocata all’interno sopra la porta laterale destra, ricorda l’evento con queste parole: d[eo] o[ptimo] m[aximo]. templum hoc extructum sub titulo s[anctissimæ] trinitatis, dedicatum fuit an[no] mdclii hanc diœcesim regente patriar[cha] aquil[eiensi] marco gradonico. affixa encæniis quotan[nis] recolendis dom[inica] iii post pentec[osten].
Negli anni successivi continuarono i lavori di modifica e di completamento. All’inizio del Settecento fu ricavata l’abside, ma l’interno assunse un aspetto simile all’attuale soltanto negli anni Venti di quel secolo.
Nel 1711 fu collocato il tabernacolo. Nei decenni successivi la chiesa fu completata con gli altari laterali e quello maggiore. A fine Settecento l’interno del tempio poteva considerarsi compiuto.
Nel corso del Settecento la chiesa nova iniziò a essere chiamata con il titolo della Santissima Trinità.
Nel 1830 la curia autorizzò l’esecuzione dei lavori di completamento della facciata, per i quali si adoperò molto il cappellano don Amadio Rizzi. L’opera fu ultimata nel 1831 con la costruzione del portale.
Negli anni Venti del Novecento, presentandosi la necessità di arredare in economia il Duomo, la vecchia chiesa fu spogliata di due altari laterali, delle statue dei santi patroni Pietro e Paolo, collocate sull’altare maggiore, e di alcune altre suppellettili sacre.
Negli anni Sessanta un intervento di restauro, che si protrasse dal 1967 al 1972, consentì la riapertura al culto.
Un ulteriore restauro ha interessato il tetto, la facciata e l’interno dell’edificio fra l’estate del 2010 e l’autunno del 2011; l’inaugurazione è avvenuta il 23 ottobre di quell’anno.
L'esterno della chiesa
L’ottocentesca facciata dell’edificio richiama forme consuete; pur nella sua imponenza, appare addolcita dalla sobrietà e dall’equilibrio delle proporzioni delineate dalle quattro lesene con capitello ionico e dal frontone triangolare che culmina nella base della croce in ferro battuto. Al centro, sopra il portale d’ingresso, una iscrizione reca l’antifona d’ingresso tratta dal proprium della messa della Santissima Trinità: benedicta sit sancta trinitas | atque indivisa unitas | confitebimur ei | quia fecit nobiscum | misericordiam suam.
L'interno (chiesa della Santissima Trinità)
L’interno, disegnato da Maurizio Baroffi nel 1719 e realizzato negli anni successivi in collaborazione con il fratello Antonio, è caratterizzato da un gradevole aspetto barocco, che attualmente appare perfino spoglio a causa dell’assenza dei due grandi altari laterali e dei numerosi arredi, quali per esempio i damaschi che ricoprivano le lesene, le lanterne pendenti e i gonfaloni.
L'altare della Vergine, già di Sant Antonio
L’altare laterale sinistro, in precedenza dedicato a sant’Antonio, è opera di Giuseppe Mattiussi e risale al 1798. Costruito completamente in marmo bianco di Carrara, è caratterizzato dal duplice binato di colonne in composito con dadi ruotati, e da una trabeazione più lineare rispetto agli altri altari; il fastigio, ai lati del quale trovano posto due figure femminili posate su tronconi di ali, reca come di consueto la colomba dello Spirito, circondata da tre coppie di cherubini. Dal paliotto della mensa, svasata e ad andamento concavo, emergono invece agli estremi due figure di cherubini e al centro gigli intrecciati. L’attuale statua della Beata Vergine di Fatima è stata acquistata negli anni Settanta del Novecento, in occasione della riapertura al culto.
L'altare di San Giuseppe
L’altare laterale di destra è dedicato a san Giuseppe, protettore nel momento della morte, e dunque è chiamato anche «altare delle anime». L’attribuzione di quest’opera rimane incerta. Osservando che per esso è stata dipinta, tra il 1729 e il 1730, la tela del Transito di san Giuseppe di Pietro Bainville (c. 1674-1749), si può supporre che risalga agli anni in cui operava per la chiesa della Santissima Trinità il tagliapietra Antonio Grassi. Un intervento del pittore locale Giobatta Badino, avvenuto nel 1912, ha modificato sulla tela due delle figure delle anime purganti.
La pala della Santa Croce
Nella parete destra, oltre l’altare di San Giuseppe, si trova la tela della crocifissione, richiesta nel 1753 al pittore udinese Giovanni Domenico Ruggeri (1696-1780) e da questi dipinta nell’anno successivo. Essa rappresenta Cristo crocifisso, la Vergine, la Maddalena e due pie donne con san Giovanni. Nel 2017 è stata ricollocata, dopo un accurato restauro, sulla parete un tempo occupata dall’altare che ora si trova in duomo.
Il presbiterio e l'altare maggiore
Il presbiterio è arredato con lineari stalli in noce fabbricati e intarsiati nel 1711 dagli artigiani Pascoletto e Romanello di Udine.
L’altare maggiore è opera del gemonese Sebastiano Pischiutti. Commissionato nel 1733 all’artista e al padre Giovanni, è stato innalzato parzialmente nel 1735. Le statue dei santi Pietro e Paolo sono state attribuite a Giuseppe Torretti, al quale risulterebbero pagate nel 1738.
Nell’opera, che richiama soluzioni già adottate dalla bottega dei Pischiutti, si alternano marmo bianco di Carrara, rosso di Francia, africano di Genova, giallo di Torri. Il paliotto della mensa è riccamente decorato con grappoli d’uva ed elementi fitomorfi e reca nella cartella centrale due angeli che sorreggono una croce e un calice con l’ostia. Il tabernacolo è inserito tra colonnine composite che sostengono una trabeazione dentellata sulla quale è posato un tamburo a base pressoché quadrata consolidato da volute.
Sulla parete retrostante, una cornice dipinta racchiude la pala dell’Incoronazione della Vergine (1643) di Giovanni Pietro Fubiaro (o Fabiaro); oltre che per il buon equilibrio con cui sono disposte le figure di Dio Padre, del Figlio che porge la corona, della colomba dello Spirito e della Vergine accompagnata in cielo da una moltitudine di angeli, il dipinto è interessante per il paesaggio che fa da sfondo nella parte inferiore. La scritta in basso a sinistra ricorda i committenti: pr[esbitero] conforto ficetur | vicc[a]rio et camerari m[ast]ro zanpiero | fabro e dom[in]ico pauliti | et isepo beltrame | 1643; a destra si legge invece il nome dell’autore: gio[vanni] piet[ro] fabiaro uden, pittore, musicista e poeta.
Gli affreschi
Nel 1720 il pittore udinese Giovanni Pietro Venier (1673-1737) dipinge i tre grandi riquadri sul soffitto della navata. Quello maggiore, posto al centro, viene riservato alla rappresentazione della Trinità. Nel riquadro verso il presbiterio un angelo porge a san Giacomo maggiore una corona e la palma del martirio. Verso l’ingresso è invece raffigurato san Nicolò nell’atto di fare l’elemosina a un paralitico; il santo, al quale è dedicata una cappella nella campagna morteglianese, è riconoscibile grazie agli attributi consueti, in particolare l’abito e i tre sacchetti d’oro.
È opera dello stesso artista, ma risale agli ultimi mesi del 1732, l’affresco che occupa l’intera volta del presbiterio con la rappresentazione della visione di Giovanni narrata nel capitolo 4 dell’Apocalisse. Al centro dell’ampio dipinto, in un soffitto rilevato da una cornice ovale, è rappresentato l’Eterno Padre; ogni particolare del testo biblico è reso con precisione: il trono celeste avvolto dall’arcobaleno, le sette lampade accese, il mare trasparente «simile al cristallo», i ventiquattro vegliardi adoranti, le loro corone, e infine i quattro esseri viventi «pieni d’occhi davanti e di dietro» (Apocalisse 4,6).
Nonostante le alterazioni subite dalle scritte esplicative dei cartigli durante i restauri che hanno preceduto la riapertura al culto, esse permettono di riconoscere con maggiore sicurezza i quattro padri della chiesa rappresentati nelle vele. L’abito domenicano e il sole sul petto caratterizzano san Tommaso d’Aquino; l’iscrizione, tratta dall’Expositio super Apocalypsim «Vox», opera spuria attribuita all’Aquinate, è particolarmente corrotta: qui edet vos | ecclesia quies | enc et domine s | et paratus | sveicare («Qui sedet in ecclesia quiescens et dominans et paratus judicare»). La raffigurazione di san Gregorio Magno contempla, secondo l’iconografia tradizionale, la presenza dello Spirito in forma di colomba. Il cartiglio reca una citazione dall’opera Moralia in Iob (19, 12): sancti omnes | foris se intus | que circumspi|cunt («Unde sancti omnes foris se intus que circumspiciunt, et vel reprehendendos se exterius, vel iniquos se interius videri invisibiliter timent»). Anche sant’Agostino è riconoscibile soltanto per la citazione, tratta dalle Enarrationes in Psalmos (96, 8): tota terra | commota est | fulgoribus de | illis nubibus | epumpentiru («si non est verum, si non tota terra iam christiana clamat: amen, commota fulguribus de illis nubibus erumpentibus?»). Generalmente la tradizione associa sant’Ambrogio o san Girolamo ai due santi precedenti; anche se la citazione rimane priva di attribuzione (ipse dat is | hoc pretium ut | eo possint vitam | aeternam emere), gli abiti pontificali permettono di riconoscere il vescovo di Milano piuttosto che l’autore della Vulgata.
La formula vif, che si può
scorgere ai piedi di Tommaso d’Aquino, farebbe supporre un intervento della
figlia del pittore, Ippolita. Erano infatti opera della pittrice anche i
quattro gonfaloni dee confraternite, dipinti tra il 1737 e il 1738
(insieme con Antonio Venier, probabilmente un fratello) e irrimediabilmente
rovinati nel 1797.
Le vetrate
Le vetrate del presbiterio sono state realizzate nel 1994 su disegno dell’artista friulano Arrigo Poz. Quella centrale rappresenta la redenzione mediante le immagini della croce e del pane eucaristico; la finestra che dà luce all’ovale è ornata con un sole ed è visibile dall’esterno. Le rimanenti vetrate richiamano le virtù teologali: san Pietro rievoca la fede; la speranza è ricordata dalla vicenda umana di san Massimiliano Kolbe; la carità è espressa dall’immagine di san Vincenzo de’ Paoli. Le vetrate dell’aula sono state realizzate nell’estate del 2011, in occasione del più recente restauro.
Gli organi
L’organo settecentesco, di fattura veneziana (opera della bottega Dacci nel 1774), nel corso dell’Ottocento fu modificato da Valentino Zanin.
Il 5 settembre 1918 alcuni soldati tedeschi ne asportarono le canne di stagno per le necessità belliche; nei decenni successivi lo stato di abbandono in cui versava la chiesa espose lo strumento a ulteriori vandalismi. Sin dall’inizio degli anni Settanta del Novecento la sollecitudine degli appassionati morteglianesi fece convergere l’attenzione delle autorità competenti sulla necessità di un rifacimento, che potè essere effettuato fra 1980 e 1981 dalla ditta Zanin di Camino al Tagliamento.
Nella chiesa è presente anche l’organo a cassapanca (Truhenorgel) di Gustav Kuhn, acquisito dalla cattedrale di Spira (Germania) nel 2012.
La chiesa d San Nicolò
Nella campagna a sud dell’abitato, alla sinistra di chi percorre la statale verso Muzzana, si trova la chiesetta votiva di San Nicolò in Arnaces (anticamente anche Reinacis).
Non sono note le origini del luogo di culto cristiano, in quanto le prime notizie storiche che menzionano una chiesa di San Nicolò risalgono alla metà del Quattrocento. Nei due secoli successivi si ha notizia del cattivo stato in cui versava la cappella, nella quale sullo scorcio del Seicento operò il pittore Giacomo Fabri. Interventi più radicali interessarono il tempio fra il 1731 e il 1742. Anche in seguito si tentò a più riprese di rimediare al progressivo abbandono del luogo di culto, ma un intervento completo di restauro è stato attuato soltanto nel 1995.
La chiesa presenta una facciata lineare con due finestre ai lati della porta d’ingresso, sopra la quale si apre una lunetta. La semplice aula rettangolare, con il soffitto a travature scoperte, appare piuttosto spoglia. L’arco che apre il piccolo presbiterio è ingentilito da due lesene e da una chiave di volta con una piccola croce. Sopra il sobrio altare, sulla parete di fondo, una cornice di stucco è quanto rimane dell’antica immagine del santo, da tempo scomparsa e recentemente sostituita con un dipinto contemporaneo. Annualmente, nella quarta domenica del mese di luglio, la chiesetta campestre è meta di una processione votiva.