La chiesa di S. Andrea a Passariano

Cappella Manin

La chiesa di S. Andrea a Passariano

La cappella dei Manin

Affacciata su Piazza dei Dogi, il luogo di incontro degli abitanti del piccolo borgo di Passariano, la chiesa intitolata a Sant’Andrea ha una storia antica, strettamente intrecciata con la vicenda dinastica e mecenatistica dei serenissimi Manin, che realizzarono il loro complesso residenziale nel villaggio ove avevano inteso avviare nel XVII secolo la dimora cosiddetta "d'unione", perno della vita politica ed economica dell’illustre famiglia.

Approfondimento

Originari di Firenze ma stabilitisi in Friuli fin dalla seconda metà del XIII secolo, in età patriarcale, i Manin emersero ben presto fra le altre casate del territorio per visione politica, cariche pubbliche, attività imprenditoriale e incameramento di beni fondiari in un’area sempre più vasta, trovando definitiva affermazione sotto il governo della Repubblica di S. Marco (1420-1797). 

La storia della cappella

Le più antiche notizie certe della chiesa risalgono alla metà del Cinquecento. Nella relazione della Visita Pastorale risalente al 1603 – una delle prime effettuate nella diocesi per tradurre in pratica i dettami della Controriforma - da parte di monsignor Agostino Bruno, cividalese, vicario generale del Patriarca d’Aquileia (all’epoca il nobile veneziano Francesco Barbaro), fu riportata una testimonianza orale di un anziano del borgo, tal Meneghino di Bertolino, ultrasettantenne, che ricordava la minuscola e povera struttura di cinquant'anni prima.

Approfondimento

I caratteri dell’edifico esistente all’inizio del Seicento furono registrati durante una Visita Pastorale da parte del canonico di Aquileia, che nel 1603 ne descrisse con minuzia le dimensioni: lungo dodici passi, largo ed alto cinque. Le pareti, pur solide, erano intonacate meglio all'esterno che all'interno, ove non c'era traccia di pitture. In facciata era presente un piccolo campanile a vela sul frontespizio; il tetto, abbastanza solido, presentava tegole sopra le travi. Non c'era sagrestia e i paramenti sacri si conservavano in una cassa lignea. La cappella maggiore del presbiterio era ornata da un altare lapideo, convenientemente largo ed alto, ospitante un'icona, definita comunque “indecentissima” (forse l’opera devozionale, dipinta dal pittore udinese Francesco Martilutti, pagata nel lontano 1491), mentre i due altari laterali,  che non recavano né dipinti né titoli, furono fatti demolire su ordine del Visitatore Ecclesiastico. Le reliquie ivi conservate furono trasferite nella vicina parrocchiale di Rivolto. Solo l’acquasantiera – con tutta probabilità quella ancora esistente, situata ora in uno dei passaggi di raccordo fra chiesa e retrostante sacrestia - rapportabile alla scuola del lapicida lombardo Pilacorte, era considerata decorosa.

Approfondimento

All’inizio del Seicento attorno alla chiesa non v'erano né cimitero né sepolture. In ciò si ravvisava il retaggio degli antichi dissidi tra i villaggi di Rivolto, Lonca e Persereano (l’antico nome di Passariano) e il pievano di Codroipo, che avevano portato nel 1496 i rappresentanti delle tre comunità a Roma per protestare contro il divieto loro imposto di impartire ai moribondi l'Estrema Unzione e ai morti cristiana sepoltura.

I beni della chiesa, come quelli dell'intero villaggio circostante erano passati, nel giro di poche generazioni, tra le proprietà dei Manin, che ben presto cominciarono a sovrintendere ogni attività riguardante il borgo, inserendo in tale contesto anche l’edificio religioso, destinato quest'ultimo ad assumere un aspetto ben più confacente di quello allora percepibile.

Fu Ottaviano Manin (1596-post 1640), uomo d'arme e fratello di Lodovico I, il ri-fondatore della dinastia, ad ingiungere ai familiari, nel suo testamento redatto nel 1640, il compito del necessario abbellimento dell’edificio, con interventi riguardanti l'altar maggiore, il campanile e il portale d'ingresso, nonché i convenienti arredi liturgici. Per il medesimo fine Lodovico I (1597-1659), colui che diede avvio alla costruzione del palazzo di villa, destinò un capitale di duecento ducati. Nella chiesetta del borgo quest'ultimo personaggio ebbe temporanea sepoltura a partire dal 1659, in attesa che le sue spoglie fossero traslate nella nuova cappella da erigersi nel duomo di Udine, come da sua espressa richiesta.

Dato il suo scarso rilievo, per un certo periodo la chiesa non fu più oggetto d'attenzione da parte dei visitatori patriarcali. Essa non aveva né obblighi né rendite e si manteneva solo con le elemosine.

La ricognizione del 1674 da parte del Patriarca d'Aquileia, cardinale Giovanni Dolfin, segnalava la modestia dell'edificio, passato sotto la tutela dei Manin. Costoro finalmente nel 1686 - tramite il conte Francesco IV (1621-1693), figlio ed erede primogenito di Lodovico I - inviarono una supplica al Patriarca per demolire l’antica cappella e innalzare un nuovo e più degno edificio. L'obiettivo di Francesco era quello di arricchire sfarzosamente l'edificio di culto, ispirato palesemente ai modelli lagunari e soprattutto all’ammirato gioiello dell’architettura barocca veneziana, evocata anche attraverso la statua della Vergine, con il bastone di comando quale "capitana da mar" e guida della città, trionfante sulla lanterna del tempio poligonale. L'organizzazione della cappella, novella Salute, doveva perciò essere in sintonia con l'assetto raggiunto dal vicino palazzo nel tardo XVII secolo.

Questo sogno - da realizzarsi a spese della Cassa della Primogenitura (ossia il deposito finanziario a disposizione dell’erede primogenito) - continuò a vagheggiare Francesco sino alla morte. Nel testamento del 1691 impegnava il figlio Lodovico II a terminare la chiesa. Il completamento dell'opera, secondo modelli diversi da quelli inizialmente previsti, riprese nei decenni successivi, quando ai figli di Francesco spettò il compito di effettuare quanto era stato auspicato dal genitore.

Approfondimento

Il mecenatismo della casata Manin aveva formato un gruppo di operatori in grado di interpretare e attuare gli orientamenti artistici dei munifici committenti: Abbondio Stazio mastro stuccatore e talvolta pure progettista, Domenico Rossi architetto e altarista, Giuseppe Torretti scultore-architetto. Alcuni di essi nel 1710 avevano compiuto un viaggio di studio a Roma, per visionare e assimilare le opere più significative del barocco, lo stile allora in voga.

La cappella della villa

Nel primo Settecento, la chiesa di Persereano (antica denominazione di Passariano), già sede di culto del paese, pur aperta verso il villaggio, viene progressivamente inglobata, fisicamente e funzionalmente, all'edificio patrizio dei Manin e sottoposta alle sue esigenze rappresentative.

La ricostruzione avviata negli ultimi anni del Seicento comportò presumibilmente anche una rotazione dell’asse ingresso-altar maggiore (il luogo sacro non rispetta infatti l'orientamento tradizionale) per consentire l'estensione delle strutture di un palazzo che si andava ampliando secondo un piano ambizioso a cui tutto doveva rapportarsi.

Nei libri contabili di quegli anni non figura il nome del progettista. Tuttavia, i riscontri stilistici avvalorano l’attribuzione di questa architettura a Domenico Rossi (alcuni elementi compositivi collegano la cappella con l'attività del Rossi per la chiesa dei Cavalieri della Croce a Lubiana, progettata nel 1714).

Approfondimento

La gran prova del proto Domenico Rossi (1657-1737) nella chiesa di San Stae a Venezia, coadiuvato da una serie di scultori tra cui emergevano Giuseppe Torretti e Pietro Baratta, aveva reso i Manin consapevoli delle potenzialità del personaggio anche nell'ambito dell'edilizia sacra. Già interpellato dai Manin per l'ampliamento delle strutture di villa (con l'organizzazione della cosiddetta Piazza Quadra, cioè gli archi e le quinte trionfali che proseguono, superata la strada, la corte di palazzo), il Rossi fu verosimilmente coinvolto anche per il disegno della chiesa, in origine staccata dagli ambienti di villa, dato che le barchesse, gli alti portici di raccordo, allora esistenti erano più basse e corte rispetto a quelle attuali. 

Al prolifico Rossi artefice si deve pure la chiesa di San Gerolamo a Venezia e il duomo di San Daniele del Friuli. 

L'esterno della chiesa venne ad affacciarsi non sulla piazza dominicale ma su uno scenario subalterno, quello delle corti rustiche di levante, che trovavano un loro punto di riferimento nella facciata, classicamente configurata, della cappella.

Fu Antonio Manin (1661-1732), il grande mecenate di opere a carattere religioso glorificanti la casata nel primo Settecento, a sovrintendere la decorazione di chiesa e sacrestia, allestite seguendo un preciso programma, percepibile soprattutto nell’apparato scultoreo.

Non sappiamo l'anno preciso in cui ebbe avvio il rifacimento, comunque, l’allestimento del complesso religioso di Passariano va inquadrato nel clima di fervore costruttivo che caratterizzò l’attività Manin nei primi anni del Settecento, a Venezia (con la cappella Manin agli Scalzi, nel 1710) e a Udine (del 1714 è l’approvazione del progetto per il nuovo presbiterio del duomo).

Oltre che nelle soluzioni architettoniche esiti di notevole livello si osservano soprattutto per quanto riguarda la qualità dell'ornamentazione racchiusa all'interno dell'edificio sacro friulano, così come venne ad essere completata tra secondo e terzo decennio del Settecento, soprattutto quando fu coinvolto nell'operazione lo scultore Giuseppe Torretti (1661-1743), originario di Pagnano d’Asolo (Treviso).

La facciata

L’edificio sacro (a pianta centrale, simile peraltro, come struttura, ad altri oratori gentilizi diffusi nella terraferma veneta e friulana), differisce – per come oggi si presenta all’esterno- dall’aspetto proposto nell’unico documento iconografico settecentesco pervenutoci, l’incisione facente parte della serie dedicata al complesso di Passariano, che riproponeva un modello in certa misura ancora memore del capolavoro del Longhena, come sarebbe piaciuto a Francesco IV Manin, e di impostazione dichiaratamente tardo-barocca.

Il prospetto effettivamente realizzato è caratterizzato, al centro della fronte principale, da colonne tuscaniche binate su piedestallo reggenti la trabeazione, conclusa dal timpano triangolare, con al suo interno lo stemma in pietra dei Manin. Sulla cornice di coronamento sono state disposte varie statue, realizzate in pietra tenera di Vicenza: sopra la linea di gronda trovano posto le immagini dei Quattro Evangelisti; alla sommità del timpano fu collocata, a figura intera, la Madonna col Bambino e due figure velate, distese, una per parte, sugli spioventi.

Il portale d'entrata, caratterizzato da un arco a tutto sesto con una testa d’angelo nella chiave di volta, è sovrastato da un timpano spezzato; nella nicchia al centro è collocato un robusto Gesù bambino, mentre due donne velate, semidistese, occupano le semiarcate laterali.

L'interno della cappella

Nel luminoso vano ottagonale della cappella, scultura ed elementi architettonici e decorativi si fondono: risaltano gli arredi plastici della scuola del maestro stuccatore ticinese Abbondio Stazio (1675-1757) sopra gli archi, le aperture finestrate e le porte, con volti di donne, angeli e putti alati, e ornamentazioni a bassorilievo al di sopra del cornicione. Si nota poi l’elegante scansione delle nervature dipinte a toni pastello della cupola, forata all’imposta da varie finestre ellissoidali che illuminano il vano.

L’interno è scandito da quattro grandi archi, delimitati da semicolonne tuscaniche, per focalizzare l’attenzione su ingresso, presbiterio e i due altari laterali.

Fondamentale è il ruolo assunto dai tre altari marmorei, quello centrale e i due laterali, inscritti entro cornici arricchite da festoni in marmo, il cui tema conduttore rimanda alla Vergine e ai santi più venerati dai nobili committenti, collegandosi significativamente con le ornamentazioni della sacrestia.  Tra gli altari laterali e quello principale si inseriscono due piccole pareti sovrastate da un paramento decorativo a stucco che imita vasi di fiori e frutta che ricadono a festoni; entro l'incorniciatura ovale si stagliano, sul fondo dorato, da una parte la colomba dello Spirito Santo, dall'altra l'Occhio di Dio entro il triangolo. Particolarmente elaborate sono le aperture superiori, in forma di balconate con balaustra mistilinea.

Curato è pure il rivestimento a tarsie marmoree del pavimento: una figura a stella entro un cerchio decora la parte centrale, l'ornamentazione prosegue a raggiera con un motivo a girali fitomorfi.

Approfondimento

Per conto del Torretti nel 1722 giunse a Passariano un apposito tagliapietra a mettere in opera i cherubini che sostengono la corona del tabernacolo  e il panno giallo dietro l'altare, nonché a rifinire gli altri due altari laterali in pietra di Rovigno. Ancora nel 1723 veniva versato un acconto per i bassorilievi degli altari laterali della chiesa (Transito di San Giuseppe e Miracolo di Sant’Antonio), compiuti nella primavera successiva, e nel '24 vengono registrati altri pagamenti per le opere della sagrestia (la Madonna e le anime del Purgatorio, l'Immacolata Concezione e la Vergine dei Sette Dolori) e i basamenti degli altari di prospettiva. Il Torretti inviò pure i materiali per le "lapidi scrite" della sacrestia. Fu in tale occasione presente a Passariano, per alcuni giorni, il nipote dello scultore, Iseppo o Giuseppe Bernardi-Torretti (che affiancò lo zio dopo la morte del figlio ed erede Giovanni Antonio, nel 1712), verosimilmente delegato dall'illustre parente a montare sul posto le opere di fatto eseguite nella bottega veneziana.

Gli altari

L'altare maggiore

L'altar maggiore di Passariano è caratterizzato dall'elevarsi, sopra la mensa, di tre statue: la Madonna col Bambino al centro tra i Santi Andrea apostolo, titolare della chiesa, rappresentato mentre porta la croce dietro le spalle secondo l’iconografia consueta, diffusa specialmente in età barocca, e Luigi-Lodovico, omonimo dei primogeniti di casa Manin ed evidente omaggio al ri-fondatore della dinastia, Lodovico I.

Sant’Andrea, già discepolo di Giovanni Battista, era fratello maggiore di Pietro, cui comunicò per primo la scoperta del Messia. Furono chiamati entrambi da Gesù sulle rive del lago di Betsaida, in Galilea, per diventare “pescatori di uomini”. Andrea fu martirizzato a Patrasso, città greca dell’Acaia, legato ad una croce sì latina ma decussata, cioè a forma di X, poi detta, appunto, di Sant’Andrea, in conseguenza di una decisione effettuata proprio dall’apostolo in quanto non riteneva ammissibile eguagliare il Maestro nella scelta del tipo di martirio.  

San Luigi, invece, è il re di Francia Luigi IX, vissuto nel XII secolo: animato da profonda religiosità e con notevoli doti politico-militari, fu a capo di una crociata contro i musulmani. Nella statua di Passariano la stola regale d’ermellino indossata dalla nobile figura copre il saio, trattenuto in vita da un cordone dal quale scende la corona del rosario. Sulla veste si intravvede la croce dell’ordine gerosolimitano di Malta, ordine cavalleresco tra i più nobili e antichi, a carattere militar-religioso e ospitaliero, assai diffuso dal XII secolo sia in Europa che in Palestina.

Nella scelta di un esponente dell’iconografia cristiana da affiancare a Sant’Andrea fu individuato in un unico santo sia un modello religioso di ascendenza patrizia, il cui culto a carattere nazionale era stato rilanciato sotto la monarchia assolutista del Re Sole, sia il richiamo a Venezia, impegnata nell’estenuante guerra nel Mediterraneo orientale, cui Lodovico I aveva contribuito con generoso finanziamento (ottenendo, di fatto, l’ingresso nel Libro d’Oro della nobiltà veneziana nel 1651).

La parete di fondo oltre l’altare è occupata da un ampio drappo, retto da otto putti alati, e realizzato con marmi policromi, ove vari cherubini fanno capolino tra le nuvole. All'apice si osserva una corona gemmata, sempre scolpita. Sotto ad essa, entro una cornice dorata mistilinea campeggia la dicitura, anch'essa dorata su fondo nero, ALTARE PRIVIL QUOTID PERPET.

Due angeli reggicero, possenti e dall’espressione concentrata, posti su mensole ornano ai lati il vano absidale; sopra ad essi si scorgono, una per parte, delle finestre a grata con cornice a rocaille, a servizio dei due vani (le secrete di cui parlava Francesco IV) attraverso i quali i rappresentanti della casata potevano assistere, non visti, alle funzioni religiose.

Sull'arco trionfale che precede l'abside si stagliano due angeli sui pennacchi e, alla sommità, due putti reggenti lo stemma araldico dei Manin (con, alternati, due leoni e due dragoni), il tutto modellato nello stucco. 

L'altar maggiore della chiesa non viene nominato dalle fonti documentarie come opera del Torretti, cui viceversa spetta la Gloria (1722), ossia il drappo sul fondale, memore degli esempi berniniani in Vaticano (anche i putti che volteggiano fra i tendaggi rimandano alla scultura romana di fine '600).

Le volontà testamentarie di Francesco IV devono aver influenzato la realizzazione della figura più importante che si erge al centro della struttura, in parte debitrice all'iconografia della chiesa della Salute a Venezia e del suo celebre altar maggiore, opera del fiammingo Giusto Le Court. A Passariano il fulcro diviene la Vergine con il Rosario in una mano, volta di lato, mentre con l’altra sorregge il Figlio benedicente: è caratterizzata dalla posa nobile e dai lineamenti severi (lontani dalla vena intimista del Torretti), richiamanti piuttosto il Meyring, allievo del ricordato Le Court, grande protagonista della statuaria barocca veneziana ed autore assai apprezzato dai Manin. A quest’ambito stilistico andrebbe dunque assegnata questa figura.

Gli altari laterali

Gli altari laterali sono caratterizzati da due imponenti cornici marmoree siglate in basso mediante ricche volute.

L'altare posto a est raffigura un miracolo compiuto da Sant’Antonio da Padova, omonimo del mecenate Antonio Manin e dell'altro avo illustre della famiglia, il cinquecentesco promotore del borgo di Passariano. Si ricorda che un’altra statua raffigurante Sant’Antonio, proprio in quegli anni, venne commissionata al Torretti per l'altare già di Santa Barbara nella chiesa annessa al convento domenicano di San Pietro Martire a Udine, altro luogo di sepoltura privilegiato della casata (qui si conserva ancora la lastra tombale di Nicolò Manin, illustre esponente della famiglia nel XIV secolo). 

L’episodio della vita di Sant’Antonio riportato a Passariano rappresenta la mula che s'inchina dinanzi all'Ostia consacrata, sulla base dell'illustre precedente del famoso bassorilievo bronzeo dello scultore fiorentino quattrocentesco Donatello alla Basilica del Santo a Padova. Nell’esemplare di Passariano l’episodio (la mula, tenuta a digiuno per tre giorni, messa alla prova dopo la sfida lanciata dal suo padrone miscredente, invece di divorare il fieno che le viene posto innanzi, si inginocchia davanti all’ostia consacrata tenuta in mano da Antonio, cosicché il padrone dell’animale si converte all’istante) viene tuttavia riletto in forme aggiornate alla cultura del tempo, con i numerosi personaggi presenti abbigliati con abiti settecenteschi e inseriti in un contesto cittadino (l’evento descritto ebbe luogo a Rimini, qui rivisitata in maniera fantasiosa), con un gusto narrativo declinato entro inquadrature spaziali rese con grande sapienza prospettica. 

 

Sul lato opposto a quest’altare, sempre entro robusta cornice mistilinea profilata in marmo giallo, è illustrato un episodio relativo alla Sacra Famiglia, cioè la Morte di San Giuseppe, sposo di Maria e padre putativo di Gesù: costoro e svariati angeli, al capezzale di Giuseppe e in volo nel cielo, piangono la sua dipartita; il soggetto trova un suo rimando iconografico nella pala dipinta sull'altare che fiancheggia l'abside nella chiesa veneziana dei Gesuiti (forse si tratta di un omaggio ai padri, e in genere agli avi di Casa Manin).

Completano questi due altari l'elegante motivo delle volute a rocaille, i putti reggi-corona della parte sommitale e il drappo retto da cherubini, richiamante la soluzione esperita nell'altar maggiore, il tutto con soluzioni marmoree policrome che contrastano con il marmo bianco riservato agli episodi raffigurati.

La sacrestia

Ai lati del presbiterio due porte immettono nella sacrestia retrostante: il deambulatorio di sinistra è fiancheggiato da una serie di lapidi che ricordano i rappresentanti della famiglia Manin (Carlo Manin, Silvia Beretta, Giuseppina Manin, Giovanna Comaschi) inumati entro il sacello, tra cui l’ultimo discendente diretto, il conte Giovanni, scomparso nel 1997. Si scorgono inoltre la pregevole acquasantiera cinquecentesca del Pilacorte e un paliotto (antependium) che ornava originariamente l’altar maggiore, in tela di lino ricamata a piccole perle policrome in vetro con motivi che compongono una grande M al centro. Esso è stato ritrovato nel sottotetto della chiesa di Passariano nel 1998 ed è stato subito restaurato, insieme alla cornice lignea, intagliata dipinta e argentata, che lo conteneva.

Il corridoio gemello ospita altre epigrafi relative ad altri defunti della casata.

La sacrestia collega l'ambiente sacro e il retrostante nucleo dominicale. Il vano rettangolare è ornato da un pavimento a marmi bicolori secondo un motivo ripetuto a cuspidi: astratta evocazione delle onde marine. In questo vano la forza degli apparati scultorei assume carattere autonomo. L'intervento dello scultore Giuseppe Torretti è, in tale sede, per forza di cose più compatto e libero, anche se condizionato dall'esiguo spazio a disposizione. La qualità dell'ornamentazione tocca il suo apice in questo vano espressamente destinato – in origine - ai nobili committenti senza deliberata condivisione con il volgo, e per l'approfondirsi della ricerca del Torretti che supera brillantemente le limitazioni di un vano di raccordo tra spazio pubblico e parte dominicale. 

Gli episodi plastico-pittorici si sviluppano in motivata sequenza e proprio le prospettive valgono a focalizzare i fatti illustranti la storia della Redenzione e della mediazione di Maria, la cui opera ausiliatrice è fra i temi più cari ai committenti. Giuseppe Torretti ha elaborato una serie di quattro altari, di cui quello del Crocefisso (1722) è il primo in ordine cronologico e il più prezioso in quanto ad ornamentazione architettonica nonché per il corredo di pietre dure che un tempo lo distingueva (la cui perdita è stata associata alle spoliazioni perpetrate dalle truppe francesi nel 1797, quando la villa divenne il quartier generale di Napoleone Bonaparte, ma che forse si sono protratte anche in seguito, durante le occupazioni militari che interessarono a ripetizione il complesso nel XIX e XX secolo).

Situata sul lato occidentale, l’elaborata struttura a mensole è fiancheggiata da due dipinti a monocromo, quali ante di monumentali armadi lignei pensili, realizzati dal pittore veneziano Francesco Fontebasso (1707-1769).

L’altare del Crocefisso

La figura marmorea di Cristo in croce è inserita in un altare stretto e alto, che si conclude alla sommità con un fastigio a timpano spezzato, su cui poggiano due angeli dalle ali spiegate, fuori scala rispetto a Gesù, semidistesi e con lo sguardo addolorato rivolto in basso, mentre reggono gli strumenti della Passione. Sontuosamente tardo-barocco, l’altare, grazie all’espandersi delle volute a triplice ordine, suggerisce una colata plastica, con rientranze e sinuose sporgenze.

L’altare è fiancheggiato da una serie di tabelle vocative, allineate verticalmente e simmetricamente sotto alle alte finestre laterali: su di esse si leggono le frasi evangeliche che evocano i momenti salienti della Passione, in una sequenza che si conclude a terra, da entrambi i lati, mediante una sorta di tavolino quadrato in marmo, retto da un elaborato pilastrino, su cui s'innalza, sostenuta da un motivo fitomorfo, una mensolina reggente una sfera in marmo giallo.

Quanto al Crocifisso, il corpo di Gesù, dalle proporzioni armoniche e stilisticamente raffinato, appare esile e minuto in rapporto alle dimensioni della pala che lo ospita. Nondimeno, quasi una perla entro un'elaborata conchiglia, emana un forte pathos. La figura, levigata e quasi translucida, è quella di Cristo "patiens" (sofferente), fulcro di tutta la rappresentazione: la muscolatura è tesa, il volto inclinato verso destra. Sono l'eleganza formale e il nitore a caratterizzare quest'opera,  che  raggiunge la severa euritmia distintiva degli esiti maturi del Torretti: la struttura architettonica di riferimento, una “macchina” teatrale tanto elaborata, è tutta al servizio della composta figura che - nella sua metafisica sobrietà - spinge alla meditazione sul sacrificio di Gesù (rafforzata dall'accostamento alla parola scritta).

I pannelli del Fontebasso

Le grisailles che fiancheggiano il Crocifisso sono state eseguite dal pittore veneziano Francesco Fontebasso (1707-1769), su commissione di Nicolò Manin dopo la morte del fratello Antonio (1732), che aveva speso gran parte della sua esistenza a trasformare diversi luoghi sacri in templi di pubblica devozione, come testimoniava la chiesa di villa, "che merita piuttosto il nome di venerabile Santuario, che di privata Capella", per riprendere le parole usate dal conte Daniele Florio nell'orazione funebre in suffragio del Manin tenutasi nel duomo di Udine.

I due pannelli con la Tentazione di Eva da parte del serpente e il Peccato dei progenitori, antecedente tematico della salvazione operata da Cristo con l'intercessione di Maria, simulano il rilievo, in linea con la predilezione dei Manin per la scultura. Pur utilizzando in questo caso l’artificio pittorico, esse si collegano coerentemente alle opere già eseguite dal maestro Torretti. Se ne distaccano tuttavia nel risentito chiaroscuro che distingue queste realizzazioni e accentua, per converso, la luminosità delle levigate realizzazioni dello scultore. Il procedimento pittorico del Fontebasso, già allievo di Sebastiano Ricci, si risolve in modo opposto a quello scelto alcuni anni prima, a Udine, in palazzo Patriarcale, da Giovan Battista Tiepolo (1727-29) con la sua svolta "chiarista".

L’antico lavabo

Potrebbe risalire alla prima chiesa del borgo il lavabo a muro scolpito rozzamente ma monumentale nella sua architettura, quasi in foggia di arco trionfale, alla cui sommità si riconosce il primitivo stemma dei Manin, diviso verticalmente in due parti, con quella di destra ulteriormente inquartata. Con ogni probabilità è il segno più remoto della pietas religiosa e del misurato mecenatismo iniziale della famiglia, destinato ad ornare quella che sarebbe poi divenuta la cappella gentilizia del palazzo settecentesco.

Lungo la parete orientale si dispongono simmetricamente due altari a bassorilievo, di Giuseppe Torretti, inframmezzati da una parte di raccordo su cui si può ammirare il ritratto di un importante rappresentante di Casa Manin, l’ecclesiastico Francesco, che resse la diocesi di Cittanova d'Istria nel primo Seicento, effigiato in un ritratto (1616) che illustra il presule settantacinquenne.

Il ciclo scultoreo della sagrestia di Passariano, che pure ha goduto in passato di minor "visibilità" rispetto ad altri lavori per il suo carattere semi-privato, esibisce una compiutezza tale da competere con i cicli maggiori realizzati fino a quel tempo e raggiunge l’unitarietà distintiva del complesso della cappella annessa al palazzo Manin di Udine, l'ultima opera commissionata dal conte Antonio prima della sua scomparsa nel 1732.

Il paliotto dell’Immacolata Concezione

Una delle due pale marmoree della Sacrestia raffigura, in lieve e medio aggetto, l'Immacolata Concezione, a destra, che si eleva sulla falce di luna e schiaccia il serpente, simbolo del Male; a ciò si raccorda, in basso a sinistra, la fosca rappresentazione dei diavoli dell’inferno, ma una delle catene che tenevano avvinti i peccatori si spezza e un’anima si eleva, folgorata dalla luce che l’Immacolata emana, simbolo della Salvezza Divina concessa all’umanità sofferente. La lettura dell’immagine procede dunque dall’alto a sinistra, con la cacciata dal giardino dell’Eden (evocato dalle mura che rinserrano il luogo ove furono originariamente ospitati, dopo la Creazione, Adamo ed Eva), le pene inflitte al genere umano (le figure in travaglio) in vita e dopo la morte (l’Inferno), che però vengono redente dall’intercessione di Maria e dal sacrificio di Cristo (la Croce), mentre in alto si eleva Dio Padre con la colomba dello Spirito Santo. Maria salvatrice, pertanto, purifica dal peccato originale dei progenitori coloro che a lei si rivolgono.

Il paliotto della Madonna Addolorata

Procedendo verso la parete cui è addossata la Madonna del Carmelo si osserva la pala che fa pendant all’altro rilievo. Essa è risolta con simile soluzione plastica, rappresenta la Madonna Addolorata, circondata da angeli che rivolgono verso di Lei delle spade (simbolo dei Sette Dolori); Ella intercede in favore dei fedeli presso Dio, in alto, armato di fulmine; a Cristo invece altri angioletti mostrano i simboli della Passione (calice, corona di spine, croce). I due pannelli, ricchi di soluzioni narrative e plastiche, sono inseriti entro due altari illusionistici, che fingono, mediante l'artificio prospettico, una profondità non presente nel ridotto vano a disposizione, del tipo di quelle eseguite dai maestri dell'arte pittorica fin dal Rinascimento e poi tradotta con sorprendente efficacia nella versione tridimensionale ad opera del Bramante quale ornamentazione del coro milanese tardo-quattrocentesco della chiesa di Santa Maria presso San Satiro. Giuseppe Torretti ripercorre a ritroso la storia del rilievo rinascimental-manierista, pur senza allontanarsi dai riscontri lagunari, in una sintesi sorprendente di motivi e di forme tradizionali (rispondendo a suo modo alle istanze collezionistiche dei committenti). 

La parte superiore di questi altari simula un’architettura a padiglione che termina con una volta a botte con cassettoni in forte scorcio: sotto l’arcata di fondo si dispongono putti alati festanti sorreggenti un drappo che si svolge a nastro.

Le mensole rilevate in modo quasi disegnativo nella parte del basamento collegano stilisticamente i due bassorilievi che simulano delle quinte teatrali, resi a "stiacciato", alle emergenze dell'altare del Cristo e anche al partito ornamentale a rocaille degli altari laterali della chiesa. L'esito dei sorprendenti riquadri prospettici – scenari austeri e silenziosi, privi di figure - aprirà la strada alle successive decorazioni scultoree dello stesso artista per la cappella Manin di Udine.

L’altare del Carmelo

Sul lato che dà verso la piazza, a meridione, il ciclo narrativo della devozione a Maria ausiliatrice si conclude con il gruppo plastico, elaborato e mosso, ancora una volta eseguito da Giuseppe Torretti, entro un'incorniciatura robusta e movimentata ad un tempo, della Madonna del Carmelo con il Bambino.

Alla Vergine, circondata da angeli in volo, elegantemente sospesi, si appellano le sottostanti anime del Purgatorio, a formare uno zoccolo elaborato e insolito. La rappresentazione del dolore misto all’umanissima energia delle figure che si divincolano fra le fiamme, risolte con una gamma espressiva stupefacente (dalla disperazione dei personaggi disposti alla base fino alla speranza che anima coloro che riescono a protendersi e a intravedere la Madonna che si erge su un sostegno, formato dall’intrecciarsi di motivi fitomorfi e dalle ali e teste dei cherubini, in una posa dinamica, mentre regge e guarda con tenerezza il Bambino sorridente) e soluzioni tecniche di altissima qualità, è senz’altro tra le composizioni scultoree più riuscite e toccanti dell’intero complesso. Il virtuosismo con cui sono resi i volti dei dolenti, e i dettagli anatomici di coloro che sono destinati al Purgatorio (come ad esempio la schiena e le braccia vigorose della figura vista di spalle) dimostrano la perizia dell’autore e la sua partecipazione emotiva al dramma vissuto dall’umanità destinata all’espiazione. La disposizione d’insieme, vagamente piramidale, è inserita entro l'aggetto di due colonne che sorreggono l'architrave spezzato, che rammemora per certi versi quello della facciata veneziana dei Gesuiti, eseguita di lì a poco, nel 1729. Al di sopra della Madonna si apre una finestra ellissoidale da cui entra la luce, simbolo della presenza divina.

Il ritratto del cardinale Barbo

L’ultima parete del sacello è quella che fronteggia l’altare della Madonna del Carmelo. Sopra la porta che conduce alle strutture residenziali del palazzo è incastonato un altorilievo eseguito in età rinascimentale da Giovanni Dalmata (1440-1509), raffigurante, di profilo e benedicente, il cardinale veneziano Pietro Barbo, poi papa Paolo II, esperto di numismatica classica ed epigrafia (alla base del rilievo si legge l’iscrizione: PETRUS BARBUS VENETUS/ PRAESUL VINCENTINUS CAR/ S. MARCI DEIN PAULUS II PONT MAX). Già abate di Sesto al Reghena, costui cercò di fronteggiare l’assalto dei turchi in Friuli nel secondo Quattrocento, tentando invano un’alleanza con l’albanese Scanderberg. La preziosa effigie – non sappiamo in che epoca pervenuta a Villa Manin - è ospitata entro una raffinata cornice contraddistinta da classici motivi a candelabre, cioè con motivi ornamentali – di carattere vegetale e non solo - “all’antica”, che contraddistinguono le paraste laterali. Tali decorazioni verticali di tipo fitomorfo nel periodo paleocristiano si legarono simbolicamente al fiore dell’agave, generato una sola volta nella vita della pianta che poi muore, e quindi al sacrificio di Cristo. Nell’architettura rinascimentale il motivo classico della “candelabra” ritornò in auge e fu largamente usato su pilastri, volte e pareti. A tale utilizzo si deve perciò collegare la ricca incorniciatura del pregevole manufatto.

Le effigi devozionali

A fianco del rilievo raffigurante il cardinale Barbo sono state disposte due effigi devozionali entro elaborata cornice: le due tele, dipinte ad olio, oggi in cattivo stato di conservazione, risalgono alla fine del XVII secolo e rappresentano una Sant’Antonio da Padova e l’altra San Francesco (probabilmente per la particolare devozione del suo omonimo Francesco IV Manin, a celebrare i due esponenti più venerati dell’ordine francescano). Ad esse corrisponde però un’altra coppia di dipinti, raffiguranti San Nicola e, con tutta probabilità, San Bernardo di Chiaravalle (con l’abito chiaro dei cistercensi, la mitria e il pastorale, emblema degli abati): da ciò si potrebbe presumere l’intento di collegare ai tre personaggi ricordati – ad esclusione di Lodovico II, cui spettava il compito di dare continuità alla stirpe- i tre figli cadetti di Francesco IV, che si votarono all’esistenza religiosa.

Approfondimento

Teche moderne ospitano infine gran parte del ricco corredo liturgico originario (in gran parte risalente ai secoli XVIII e XIX) della cappella gentilizia,  composto da calici e patene, servizi di ampolline, da un Missale Romanum del XVIII secolo (stampato a Venezia nel 1774) con legatura in argento sbalzato e cesellato, croci astili, reliquiari, ostensori, reliquiari, cartegloria, pissidi, paramenti vari, realizzati in gran parte a spese dei Manin per arricchire la dotazione di una chiesa di modeste dimensioni ma di grande significato.

Al termine di questa ricognizione si comprende che l'effetto d’insieme ricercato nella sacrestia è simile a quello delle "camere di meraviglie", una specie di museo di rarità e preziosità che ben s'accosta al carattere privato di questo luogo, destinato ad una scelta frequentazione di persone in grado di apprezzare e render ragione del risultato perseguito. Questo era l'obiettivo delle descrizioni più conosciute, come quella del conte Fabio Beretta, edita nel 1753: "[...] Vaghissima è di questa [chiesa] tanto l'interna, quanto l'esterna struttura, e copiosissimi sono gli ornamenti d'argenti, pitture, e sculture de' più celebri autori. Uguale alla Chiesa è la sontuosità della Sagristia; anzi si può dire che in parte la supera, per un nobilissimo Altare, e per altri lavori tutti impreziositi d'agate, e camei, corniole, ametisti, e altre pietre di valore [...])".

L’elaborazione proposta dal Torretti sembra riagganciarsi - secondo le intenzioni dei committenti - alle origini fiorentine del casato, quasi si trattasse di una modesta riproposizione della Cappella dei Principi in San Lorenzo (il progetto del mausoleo fiorentino della dinastia medicea fu redatto all'inizio del XVII secolo) nella "dimora d'unione", differenziata così dalle scelte ornamentali effettuate nelle chiese veneziane o nel Duomo di Udine.

Sacrestia-reliquiario, pantheon delle glorie Manin, quest'ambiente è un omaggio a figure insigni evocate direttamente, come il vescovo Francesco, o indirettamente (Lodovico I nel San Lodovico della chiesa, e nel Sant’Antonio l'omonimo cinquecentesco, ossia colui che aveva acquisito la Gastaldia di Sedegliano, cui faceva capo Passariano, a memento dei rappresentanti allora attivi, i fratelli Lodovico II e Antonio, figli di Francesco IV): il risultato oltrepassa i consueti esempi allora in auge. Ciò pare non disgiunto dall'amore per il collezionismo che in quei decenni animava i Manin, specie nella formazione raccolta antiquaria nel palazzo veneziano di San Salvador presso il ponte di Rialto.

Approfondimento

La passione per l’arte dei Manin, manifestata soprattutto nella loro residenza veneziana viene trasferita anche alla "villa d'unione", ove moderno e antico erano i due poli attraverso i quali oscillava il loro gusto, l'urgenza ad essere aggiornati e cosmopoliti nel gusto, ma con forti radici in due mondi: il centro-Italia (Roma e la Toscana natìa) e Venezia, la patria. Nella prima metà del Settecento veniva riscritta, da parte di Romanello Manin, la storia di famiglia e celebrato il casato al fine di rispondere indirettamente alle accuse di chi aveva osato screditare una famiglia d'origine cittadina e di nobiltà relativamente recente. Il puntiglio con cui si riordinavano notizie e avvenimenti, a ribadire la continuità storica delle scelte compiute, portava a precise scelte di valorizzazione mecenatistica, ambito nel quale l’operato dello scultore Giuseppe Torretti si distinse con le opere sue più interessanti, per versatilità e sensibilità, sino ad approdare ad esiti originali che preludono al successivo gusto neoclassico.