La chiesa di San Martino a Terzo d’Aquileia
Terzo d’Aquileia
L'interno della chiesa
Chiesa di San Martino, veduta dell'interno, Terzo d’Aquileia
Gli affreschi
Chiesa di San Martino, veduta dell'abside con piedritti sui lati, Terzo d’Aquileia
Gli affreschi
Chiesa di San Martino, Affreschi con storia della salvezza e - sotto - Santi Apostoli, fine XV sec - inizio XVI sec, Terzo d’Aquileia
La chiesa di San Martino a Terzo d’Aquileia
La storia
In epoca romana il territorio dell’attuale comune di Terzo era attraversato da due vie principali da e per Aquileia. La prima, detta Julia Augusta, tuttora praticata per un tratto, lungo la quale, al Terzo miliare, sorse il primo nucleo abitato di Terzo. La seconda Annia, consolare costiera, che dopo Concordia e il ponte sul fiume Aussa, entrava nel territorio di San Martino, raggiungendo Aquileia per un secondo ponte che sorgeva a monte dell’attuale, detto Ponte rosso. La sua presenza, oltre che da numerosi reperti tombali, è tuttora riscontrabile dai resti che emergono in superficie.
Allora come oggi le vie principali erano collegate da strade minori. Una di queste, staccatasi dalla Annia, raggiungeva l’attuale San Martino, dove si biforcava per Cervignano e per Terzo. Il suo tracciato ricalca l’attuale stradario ed è documentato da tracce romane sul terreno. Era un percorso alto, cui seguì uno basso, l’attuale via Marcon passante per Moruzzis.
Dopo la fine dell’Impero romano anche questo territorio, il più prossimo a quella che fu la grande Aquileia, cadde per lungo tempo nel più squallido abbandono, senza lasciare memorie né archeologiche né storiche. Ne uscì soltanto al tempo dei Longobardi (VII-VIII secolo), quando sorse l’abbazia benedettina di San Michele di Cervignano: una istituzione monastica con possesso e giurisdizione ecclesiastica e civile su un vasto territorio circostante. Nella prima metà del X secolo il Friuli fu devastato da ripetute incursioni degli Ungheri che causarono pure la distruzione di quella abbazia. Tale fu allora la rovina, da indurre l’imperatore a concedere un particolare potere ai patriarchi di Aquileia, allo scopo di attuare la ripresa sociale, economica e religiosa della regione: ripresa, ma anche controllo del territorio, che questi misero in atto anche con l’istituzione o dotazione di istituti monastici.
Tra questi il monastero femminile di Santa Maria di Aquileia, a favore del quale è ricordata una dotazione del patriarca Giovanni IV (984-1019). A questo proposito, una nota tarda ci informa che i possessi di quell’istituto, almeno in parte, erano appartenuti alla distrutta abbazia di San Michele.
Alla prima dotazione seguì quella del successore patriarca Popone (1019-1042) che, con diploma in data 16 luglio 1036, donava (o confermava) alla chiesa e monastero di Santa Maria il possesso con giurisdizione di una decina di ville e loro territorio, tra le quali Terzo e San Martino. È l’inizio della storia documentata del monastero: la storia di un feudo monastico che si concluse nel 1782 con la sua soppressione, determinata dalla politica attuata dall’imperatore Giuseppe II. Con la soppressione del monastero, la chiesa di San Martino fu incorporata nell’arcidiocesi di Gorizia. Ridotta nel 1788 a cappellania e poi vicaria della nuova parrocchia di San Biagio di Terzo, riebbe l’antico titolo nel 1844, come ricorda la piccola iscrizione sulla facciata della chiesa.
La chiesa
Decentrata rispetto all’abitato, si presenta con l’abside rivolta a Oriente, per indicare ai fedeli Cristo “Sole di salvezza”.
La chiesa sorge su un terreno leggermente sopraelevato, dominata da una massiccia torre campanaria, e protetta, con il primitivo cimitero, da un antico muro di cinta (centa), con ingresso evidenziato da un monumentale portale con cancellata in ferro, preceduta da una rampa acciottolata. La piazzetta antistante è caratterizzata da una fontana in pietra.
Sul muro di cinta, una lapide eretta a cura della parrocchia con i nomi di undici vittime dell’ecidio del 28 aprile 1945 ad opera dei tedeschi in ritirata e i nomi di undici caduti nella guerra 1940-1945.
A sinistra la vecchia casa canonica, risalente alla seconda metà del Cinquecento, con meridiana e bassorilievo su marmo, raffigurante San Martino che dona il mantello al povero, opera di Franco Sclauzero da Terzo.
In facciata, la porta maggiore con ai lati due finestre ad arco e in alto un rosone: recente ristrutturazione nello stile delle chiese altomedievali al posto di due finestre rettangolari con grata e una a mezzaluna sotto il timpano.
Di fronte alla facciata la massiccia torre campanaria del XVII secolo (pendente, alta circa 24 metri), sopraelevata nel primo Novecento, con tamburo poligonale in mattoni.
L'interno della chiesa
L’interno della chiesa si caratterizza per la semplicità dell’architettura e per il ricco decoro pittorico. Il presbiterio misura m. 4,80 x 7,60, con soffitto a volte; la navata m. 8,8 x 18, la cui altezza è di m. 7,50, con tetto a capriate.
Della struttura muraria occorre evidenziare le principali ristrutturazioni apportate nel corso della storia. Tra queste, la più evidente, il presbiterio: più ampio rispetto a quello originario, d’epoca rinascimentale, abside poligonale e copertura a volte. Sono pure d’epoca rinascimentale le due più grandi finestre nella parete destra della navata.
Altre importanti ristrutturazioni sono fatte risalire tra XVII e XVIII secolo. In quel periodo fu allungata la navata di circa 4 metri e sopraelevata di 2,50; murate le antiche finestrelle, costruita una nuova cappella-battistero con bel portale in marmo; eretti nuovi altari laterali in marmo al posto di quelli lignei. Inoltre edificata la torre campanaria, che andava a sostituire il campaniletto a due campate che stava sul colmo della vecchia facciata. Infine, eretto il monumentale arco d’ingresso al sagrato.
I dipinti antichi furono coperti con intonaco e saranno riportati alla luce solo nel corso del Novecento.
Il 1913 fu l’anno della prima casuale riscoperta di un tratto del dimenticato antico decoro pittorico della chiesa: riscoperta considerata importante, ma che non ebbe immediati sviluppi, sia per il costo sia a causa della guerra scoppiata poco dopo.
Portati quasi interamente alla luce nel 1920, i dipinti furono oggetto di restauro a più riprese: 1926 (superficiale), 1946 (limitato alla zona absidale), 1992 (accurato e generale).
Nel corso della seconda metà del Novecento, con l’intento di riportare la chiesa, per quanto possibile, all’antico aspetto, furono eseguiti diversi interventi, talora discutibili.
Fu ristrutturata la facciata così come oggi appare: murati i finestroni d’epoca barocca, riaperte le originarie finestrelle e la porta laterale antica.
All’interno fu eliminato il pesante tendaggio in marmo che stava addossato sul muro dell’abside; rialzato il pavimento della navata (di 30 cm circa) con nuova pavimentazione in piastrelle, al posto dell’antico in mattoni; smantellati gli alzati degli altari laterali e l’altare della Madonna.
Inoltre, trasportato il tabernacolo dell’altar maggiore sulla mensa dell’altare laterale sinistro, mentre la mensa dello stesso fu rifatta in piano per la celebrazione della messa coram populo.
La mensa dell’altare maggiore, in marmo, mostra sul paliotto l’immagine a intarsio di san Martino a cavallo che dona il mantello al povero. L’opera, attribuibile a Leonardo Pacassi di Gorizia († 1697), porta inciso l’anno 1687, il nome dell’allora pievano conte Leonardo Rinaldi e di due camerari. Sotto il pavimento c’era la Tomba dei pievani e di altri sacerdoti, di cui esternamente fu cancellata ogni traccia
L’altare laterale sinistro è attualmente dedicato al Santissimo Sacramento, in origine aveva il titolo di San Dionigi e della Beata Vergine della Neve, con annessa confraternita. A fianco della mensa sono incisi l’anno 1696 e i nomi del pievano Leonardo Rinaldi, dei camerari Domenico di Angelo e Domenico di Antonio Antonelli. Il bel tabernacolo sovrastante è opera di Andrea Cavalieri di Venezia (1693). Accanto due angeli mancanti delle ali. L’angelo di destra manca pure del braccio sinistro, che sosteneva la lampada del Santissimo Sacramento. Le statue di marmo bianco furono qui ricollocate dopo un lungo stato di abbandono sul muro esterno di cinta.
L’alzato di questo altare, smantellato nel 1951, era costituito da due colonne scanalate in marmo con capitello (alto m. 1,75), arco, due angioletti ai lati e un terzo sul colmo.
Sul fonte battesimale troviamo inciso l’anno 1587 e la scritta:
FONS ACQUAE VIVAE SALIENTIS IN VITAM
ETERNAM
L’altare laterale destro è dedicato a san Lorenzo, in marmo, fu eretto nel 1697 dallo stesso pievano Rinaldi e suoi camerari. Anche l’alzato di questo altare fu smantellato nel 1951.
Nella cappella laterale è collocata la statua lignea della Beata Vergine del Rosario del 1936, su semplice altarolo in legno.
La prima acquasantiera a sinistra dell’ingresso principale, con catino in marmo bianco, mostra la data 1609 e il nome del cameraro allora in carica. Sostenuta da colonna e capitello molto più antichi in una composizione che non appare appropriata. La seconda acquasantiera in pietra si trova accanto alla porta laterale d’ingresso e pare coeva alla precedente.
Sul pavimento della navata, la lastra tombale della nobile famiglia Bevilacqua residente a San Martino, estinta nel 1762. In bassorilievo lo stemma gentilizio (una fontana) e la scritta:
NOBILI DOMINO
BERNARDINO BEVILAQUA
ET SUCCESSORIBUS
REQUIES SALUSQUE
1659
Sotto il pavimento del presbiterio c’era la tomba dei pievani e sacerdoti di questa antica pieve. La loro sepoltura si trova annotata nei registri parrocchiali solo a partire dalla seconda metà del Seicento: quattordici in totale fino al 1769. Nessuna lastra tombale è rimasta come segno e ricordo.
Gli affreschi
Gli affreschi più antichi, in pessimo stato di conservazione, si trovano sulla parete sinistra, risalenti alla prima metà del secolo XIII. Nel riquadro rettangolare contornato da linea in colore rosso, al centro la Madonna in trono col Bambino; ai lati san Benedetto, santa Elisabetta d’Ungheria (con tre corone) e i due santi vescovi Martino patrono e Dionigi l’Areopagita compatrono. L’affresco è databile non prima del 1235, anno della canonizzazione di santa Elisabetta.
La croce rossa, rozzamente dipinta sopra l’affresco, si riferisce alla consacrazione della chiesa.
A fianco, nel riquadro alto quasi come la parete, un gigantesco san Cristoforo con grossa canna per bastone, e Bambino Gesù sulle spalle, mentre attraversa un fiume in piena. Santo leggendario, patrono dei pellegrini, la cui devozione iniziò nel XII e si sviluppò nel XIV secolo. Il nostro, che si colloca di fronte all’ingresso laterale, ci ricorda una funzione importante di molte chiese antiche: luogo di sosta e rifugio dei viandanti, lungo strade trafficate e soggetti e pericoli di varia sorte.
Il secondo ciclo di dipinti risale alla seconda metà del XIV secolo e può essere ricondotto ai seguaci di Vitale da Bologna.
Nel piano alto della parete sinistra della chiesa erano affrescate alcune scene della vita di Gesù del tutto perdute. Nel piano basso sono conservate, gravemente compromesse, cinque scene che rappresentano la Crocifissione, la Deposizione nel sepolcro (perduta), la Resurrezione, al Discesa agli inferi e l’Ascensione. Per rimettere in vista il dipinto più antico, la terza e la quarta scena furono staccate e collocate sulla parete destra.
Un sesto riquadro rappresentava san Giacomo e altri santi in funzione di pala dell’altare sottostante (perduta). Si noti la particolarità nei dipinti dell’epoca: i raggi incisi entro il nimbo dei santi.
Questi affreschi, che discendono da Vitale da Bologna, trovano riscontro in quelli nella cattedrale di San Giusto a Trieste e della basilica di Aquileia e sono riconducibili a un allievo del maestro di San Giusto.
I dipinti che decorano la cappella della Madonna, parte della navata destra, tutto il presbiterio e l’abside appartengono a un periodo tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Narrano la storia della salvezza, dal peccato originale alla nascita del Salvatore.
Il racconto illustrato inizia dalla cappella della Madonna, dove domina l’immagine della Santissima Trinità. Prosegue con la scena del Peccato originale, con accanto Abramo nell’atto di sacrificare il figlio Isacco. Sul piano alto, a sinistra dell’arco presbiterale, una finestrella che resta chiusa all’offerta di Caino (lacunoso); a destra una finestrella aperta da Dio Padre per accogliere l’offerta di Abele.
A sinistra dell’arco presbiteriale l’Angelo Nunziante (perduto), a destra Maria Annunziata.
La storia prosegue nell’abside, con in basso la Nascita del Battista, l’Incontro di Maria con sant’Elisabetta e la Presentazione di Gesù al Tempio.
Sul piano basso delle cinque vele, la Natività, l’Adorazione dei pastori e dei Magi e la Fuga in Egitto. Sul piano alto, i Quattro Evangelisti, con i loro simboli, angeli musicanti, con al centro l’Incoronazione di Maria in cielo.
L’arco absidale decorato a grotteschi presenta i ritratti di Mosè, Abacus, Daniele, Iosia e Iacopo: profeti dell’antico popolo di Israele.
Negli altri spazi liberi sono presentati all’attenzione dei fedeli molte figure di santi: apostoli, martiri, dottori della chiesa e confessori.
Sui piedritti dell’arco absidale, a sinistra i Santi Benedetto e Sebastiano, a destra i Santi Sigismondo (?) e Rocco.
Sul piano basso delle pareti del presbiterio la schiera dei Dodici Apostoli, da sinistra Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni, Bartolomeo e Filippo, Tommaso, Matteo (non più presenti: Giacomo di Alfeo, Giuda, Taddeo, Simone e Mattia).
Sul piano alto a sinistra tre scene della vita del patrono San Martino: il dono del mezzo mantello (perduto), il sogno seguito al dono e uno dei miracoli di resurrezione operati per intercessione del santo. A destra in alto, il compatrono San Dionigi vescovo in cattedra, affiancato dai compagni di martirio Eleuterio presbitero e Rustico diacono; sotto, lo stesso vescovo con Sant’Eleuterio e Sant’Antonio Abate.
Nella volta a crociera, su fondo rosso (in origine azzurro), quattro Santi Padri e Dottori della Chiesa, seduti su imponenti cattedre di pietra, segno di autorevolezza e sicura dottrina: Ambrogio vescovo, Girolamo sacerdote, Agostino vescovo e Gregorio Magno papa.
Nell’intradosso dell’arco trionfale che divide la navata dal presbiterio, le Sante martiri: Apollonia, Cecilia, Caterina, Ursula, Lucia e Lena. Sui piedritti, Santa Barbara, San Giovanni Battista, San Lorenzo e San Paolo.
Ai due lati dell’arco, sopra la mensa dell’altare laterale destro, con funzione di pala, San Lorenzo in cattedra, con la graticola, simbolo del suo martirio. Sulla parete destra San Valentino sacerdote e Santo Stefano diacono, quest’ultimo riconoscibile dai sassi sulla testa e sulle spalle.
Nella cappella della Madonna, San Francesco, con stigmate e libro, San Domenico, con giglio e libro, un Santo con bastone non identificato e San Giorgio, con la spada e il vessillo.
Sulla parete sinistra una scena (per metà perduta) che non è parte della storia che si rappresenta. Si tratta del donatore-committente della decorazione: un prelato penitente (il parroco?) accompagnato dalla Vergine, inginocchiato davanti alla Croce. Si noti in basso una delle croci di una seconda consacrazione della chiesa. Non pertinenti alla storia sono pure, sugli strombi delle finestre del presbiterio, tre camerari di San Martino allora in carica e due di Terzo.
Gli affreschi dell’abside e del presbiterio appartengono ad un modesto seguace del pittore Pietro da San Vito (attivo tra 1470 e 1545 circa).
Invece i dipinti sul lato destro della navata e nella cappella della Madonna sono attribuibili ad un anonimo frescante della scuola di Pellegrino da San Daniele (1467-1557).