La chiesa di San Lorenzo a Varmo

La chiesa plebanale di Varmo

La chiesa di San Lorenzo a Varmo

Edificata su sedime antichissimo (è forse la quarta chiesa ricostruita in sito poiché si fa memoria di una “in cattivo stato” già attorno alla seconda metà del XII secolo), fin dall’origine la chiesa di San Lorenzo Diacono Martire di Villa di Varmo, ora Varmo, ha goduto della protezione e del sostentamento nelle proprie funzioni e prerogative da parte della famiglia dei conti di Varmo di Sopra e di Varmo di Sotto.

Le forme attuali della chiesa si devono soprattutto alle modifiche apportate nel corso dell’Ottocento. Infatti, nel 1852 il pievano Giovanni Tell intraprese la radicale riforma dell’edificio per adattarlo anche (e soprattutto) al nuovo assetto urbanistico del paese, ma anche per evidenziare il prestigioso ruolo rivestito all’epoca dalla istituzione ecclesiastica.

La riforma consiste nella parziale demolizione della chiesa quattrocentesca, che fu ruotata di 180°, ne fu allungata la navata e demolito il vecchio coro poligonale (nel 1854), con la creazione di una nuova facciata ad est, rimasta incompiuta (prevedeva, infatti, un maestoso pronao neoclassico), e la costruzione di un nuovo presbiterio a ponente, nello spazio della piazzetta antistante il campanile e il cimitero. Furono rinforzate e sopraelevate le pareti longitudinali (insistenti su quelle del XV secolo) e nella fiancata nord fu addossata la sacrestia.

Il 30 settembre 1869 la rinnovata chiesa fu consacrata dall’arcivescovo di Udine Trevisanato (come si legge nell’epigrafe posta sopra la porta della sacrestia).

L'esterno

Nella sua complessità è un edificio culturale di notevoli dimensioni. Esternamente presenta una volumetria semplice, severa, con una facciata palesemente neoclassica, arricchita da due nicchie con le statue marmoree con i Santi Lorenzo e Michele Arcangelo, rimasta incompiuta del pronao.

Nell’impianto del sagrato ottocentesco era leggibile il tracciato architettonico del mai realizzato pronao, essendo state gettate le fondamenta. Ciò giustifica agli occhi del visitatore l’incompiutezza della facciata.

Durante i lavori di restauro, nel 2007, è stato smantellato e quindi sbancato totalmente il vecchio sagrato.

 

Il campanile "veneziano"

La costruzione fu iniziata nel 1774 e portata a termine nel 1785. In quegli undici anni la fabbrica del campanile domandò sacrifici e fatiche non indifferenti per la comunità.

La torre campanaria, di forme romaniche nella parte inferiore e rinascimentale in quella superiore, si erge con la sua possente mole fino a raggiungere l’altezza di 47 metri.

Il fusto è in mattoni a vista, mentre la parte superiore e la guglia piramidale sono intonacate. Chiaramente lo stile del campanile rievoca, seppure in scala ridotta, quello veneziano di San Marco; infatti gli abitanti di Varmo volevano in ciò ricordare Venezia, della quale erano sostenitori e devoti.

Nella cella campanaria sono sistemati tre bronzi, dal bellissimo accordo “MI-RE-DO”; la campana maggiore pesa 18 quintali.

L'interno della Chiesa

L’interno è stato concepito esclusivamente come degna “custodia” del trittico di Giovanni Antonio Pordenone, che in effetti ne domina e condiziona l’intero sviluppo.

La costruzione, a navata unica, rispecchia il principio della chiesa-sala della Controriforma.

L’ampia volta centinata della navata e del vasto presbiterio crea un grande vano spaziale, ricco di contrasti di masse aggettanti e rientranti, animate da soluzioni decorative di effetto scenografico. La vigoria architettonica deriva dalle grandi paraste di ordine toscano che si elevano con falsa baccellatura (cioè un’alternanza di decorazioni concave e convesse) in tutte le pareti e costituiscono il motivo dominante della composizione.

L’arco trionfale raccorda l’aula al complesso presbiteriale, composto dal coro e dall’abside, le cui volte a botte cassettonate, arricchite da rosettoni dorati, ripetono il motivo adottato da Pordenone nella cornice e nelle tele del suo trittico.

La decorazione, che forse oggi risulta pesante (ma che riflette pienamente il gusto estetico dell’epoca) è stata realizzata da Leonardo Elia di Gemona nel 1928; inoltre sono documentati interventi di Tiburzio Donadon e di Pietro Zanini per quanto riguarda l’abside.

Il Trittico del Pordenone

L’episodio artistico più significativo ed importante per la chiesa e per la cultura del territorio è certamente il Trittico di Giovanni Antonio da Pordenone, collocato sopra l’altare maggiore.

Fu grazie al mecenatismo dei conti di Varmo di Sopra e di Varmo di Sotto, committenti tutt’altro che sprovveduti culturalmente ed economicamente, che Varmo può vantare la presenza di una grande figura d’artista qual è il Pordenone.

In quel lontano giovedì 5 aprile 1526, in Villa di Varmo, alla presenza dei conti di Varmo e dei rappresentanti del Comune e degli uomini, venne rogato il contratto con cui il pittore Giovanni Antonio de’ Sacchis o Sacchiense (1483-1539), cittadino di Pordenone, si impegnava a portare a termine la grandiosa opera. La consegna avvenne puntualmente nella primavera del 1529.

“Il Pordenone”, così detto dal luogo di nascita, è ritenuto il più grande artista friulano di ogni tempo e uno dei maggiori del Cinquecento veneto-friulano. Quella di Varmo è una delle sue opere più importanti e interessanti, in quanto è l’unica che conservi anche la cornice originale, in legno intagliato, dorato e dipinto, disegnata dal Pordenone stesso e realizzata materialmente nella bottega di Giovanni da Udine. È in perfetta sintonia con i canoni estetici rinascimentali ed è un festoso trionfo di intagli, con animali mitologici, allegorie, ghirlande e racemi che impreziosiscono le varie parti architettoniche.

Nel trittico è spiegata la storia con un linguaggio sonoro e colorito, che apostrofa rudemente lo spettatore, non tanto per indurlo alla meditazione, quanto per eccitarlo e metterlo in uno stato di molteplici emozioni. Ci si rende conto, insomma, che questa non è un’opera concepita per il solo servizio devozionale-religioso; in realtà è una potente ostentazione del potere dei conti di Varmo. Pure la Madonna e i santi, con la loro ieraticità, vogliono raffigurare i ritratti dei committenti. Un tentativo, ben riuscito per il tempo, di “divinizzare” il ceto nobiliare presso la comunità.

Il trittico del Pordenone rappresenta un momento innovativo fondamentale per la cultura e l’arte figurativa dell’intero territorio del Medio Friuli, fino ad allora fortemente arretrata. Di qui in avanti tutti gli artisti locali del Cinquecento, ma anche quelli del Sei e Settecento, più o meno velatamente guarderanno a quest’opera e al suo grande autore.

Approfondimento

Sull’alto zoccolo (la parte centrale è impaginata con tre scomparti: quello centrale, antica porticina del tabernacolo, presenta in bassorilievo la figura del Cristo morto sorretto da angeli, quelli laterali due angeli con turibolo e navicella), poggiano le quattro semicolonne scanalate, con capitello corinzio composito, che tripartiscono la pala, lateralmente unita da trabeazione aggettante, dove, fino in età napoleonica, si potevano ammirare gli stemmi delle due casate dei conti di Varmo. 

La struttura lignea prosegue con due modiglioni che verticalizzano la parte centrale, conclusa da un lunettone, con la ieratica figura del Padre Eterno, nella consueta interpretazione iconografica, tra nubi angelicate. 

Ai lati, nelle due volute, la scena dell’Annunciazione con l’angelo a sinistra, contrapposto all’Annunciata, quest’ultima raffinata figura di giovane donna. 

I dipinti del Pordenone

Dei tre dipinti ad olio su tela, quello al centro raffigura, entro una struttura architettonica absidata di grande effetto scenografico, la Madonna con il Bambino, posta su alto basamento, ai cui piedi vi sono tre angeli musicanti, nell’atto di suonare. Un attento osservatore si accorgerà subito che l’interno prospettico della chiesa trova perfetta continuità ed armonia proprio nella prospettiva della tela centrale.

La tela centrale presenta una tavolozza di colori sbiaditi rispetto alle laterali: ciò è dovuto al restauro eseguito nel 1983, quando sono state tolte le varie ridipinture, soprattutto ottocentesche, e di conseguenza sono riemersi i colori originali.

Nella tela laterale di sinistra è raffigurato san Lorenzo diacono e martire, patrono principale della Pieve, in lussuosa dalmatica dorata, impreziosita da motivi decorativi, a pressbrokat e da inserti pittorici (nei due piccoli riquadri sono raffigurati i santi Pietro e Paolo, in alto, e i santi Rocco e Sebastiano in basso); straordinaria la soluzione tridimensionale del Vangelo, che “esce” dal dipinto. A fianco la figura di san Giacomo Maggiore, titolare della chiesa castrense, che andò distrutta insieme agli antichi castelli nell’alluvione del 1596.

La tela laterale di destra è occupata dalla mossa, coloratissima figura di san Michele arcangelo, in vesti di soldato romano, con vistose ali verdi, intento – secondo la tradizione iconografica – a pesare le anime con la mano sinistra (piacevolissime le due figurette poste sui due piatti), mentre con l’altra tiene a bada con una grande lancia e col piede destro la mostruosa, fantastica immagine del demonio. Questo santo guerriero è compatrono della chiesa. Dietro si scorge la canuta figura di sant’Antonio abate, con folta barba bianca e ai piedi il maialino, suo inseparabile attributo iconografico. È il santo patrono della rustica comunità di Villa di Varmo.

L'altare maggiore

Eretto nel 1853, appena terminato il nuovo presbiterio, in sostituzione del precedente su cui poggiava il trittico. È costituito da materiali di riporto ed è stato oggetto di diverse modifiche e ammodernamenti, l’ultimo dei quali (discutibile) alla metà del secolo scorso.

La struttura marmorea è policroma e sulla mensa troneggia il bellissimo tabernacolo a forma di tempietto barocco, con intarsi e decorazioni, su cui svetta la statuetta del Cristo risorto.

Ai lati dell’altare, su due piedistalli, si ergono due statue lignee, dipinte a finti marmi, dei santi Francesco e Rocco, recuperate nel 1948 dal demolito altare della chiesa di Muscletto, per sostituire quelle marmoree dei santi titolari Lorenzo e Michele, poste in facciata e oggi rovinate.

Gli altari laterali

Pregevoli sono i due monumentali altari laterali “gemelli”, in quanto molto simili, espressione della più raffinata produzione altaristica veneto-friulana della seconda metà del Seicento (stilisticamente denunciano analogie con due altari nella Pieve di San Lorenzo in Monte di Buja). Sostituiscono o precedenti intagliati e dorati.

Si compongono della splendida mensa a sarcofago, il cui paliotto è plasticamente decorato con testine di cherubini e motivi floreali: nel medaglione nero centrale, in entrambi, c’è una graziosissima Madonna con Bambino, a tarsia marmorea, con inserti di madreperla. La struttura è fiancheggiata da alte colonne e lesene con capitello corinzio-composito e coronata da una complessa cimasa mistilinea, la cui sommità è popolata da due angeli oranti (di particolare interesse), in atteggiamento pensoso, che esaltano il fastigio con la lunetta terminale.

Quello di sinistra, conosciuto anche come altare di San Luigi, è dedicato alla Beata Vergine del Rosario ed ospita la pala dell’Amalteo, presenta marmi policromi dai colori vivaci di ricercata preziosità.

L’altare di destra è dedicato alla Trasfigurazione di Nostro Signore e vi si poteva ammirare la tela del Floreani. Preceduto da una gradinata di marmo nero, l’altare è in marmi policromi, con screziature grigie e violacee. Dal 1907 ospita la Madonna da li filandèris, cioè una statua dell’Immacolata, in legno intagliato, laccato e dipinto della ditta Mayer di Monaco di Baviera

La Madonna dell'Amalteo

Nel 1542 il pittore Pomponio Amalteo (1505-1588), allievo e continuatore, oltre che genero, del Pordenone, licenzia la pala che raffigura la Madonna con Bambino e santi, collocata nell’altare laterale di sinistra, commissionata dalla locale confraternita della “Madonna dell’altare”.

Il dipinto è concepito con la consueta impostazione rinascimentale, a piramide, e trova perfetta analogia compositiva e coloristica con il trittico del Pordenone.

La rappresentazione è ambientata in un interno architettonico absidato, con soffitto a cassettoni. La dolcissima Madonna con Bambino in “maestà” (due angeli alle spalle reggono una tenda preziosa), è attorniata da quattro santi: a sinistra san Giovanni Evangelista e san Gregorio, a destra san Giuseppe e san Valentino (le figure dell’Evangelista e di san Giuseppe saranno poi riprese fedelmente nel 1588 da Amalteo nella pala per il duomo di Maniago).

Ai piedi dell’alto basamento del trono (nel quale si legge in caratteri romani la data 1542), sono effigiati i donatori del quadro: sono sei piccole figure oranti. È tradizione consolidata che nel confratello più avanzato di sinistra, con il pizzo, il pittore abbia lasciato il proprio autoritratto.

La varietà degli atteggiamenti e le curiose notazioni realistiche derivano al pittore dall’insegnamento pordenonesco.

Approfondimento

Pomponio Amalteo (Motta di Livenza 1505 – San Vito al Tagliamento 1588) oltre che pittore fu anche podestà di San Vito al Tagliamento ed ebbe una lunga attività artistica ed è presente in tutto il territorio friulano. Egli va di certo considerato il maggiore pittore friulano nel periodo successivo a Pordenone, di cui aveva di fatto ereditato le commesse di bottega e ne continuò l’opera, creando quindi una propria scuola, attiva nella seconda metà del Cinquecento e nel primo Seicento.

Approfondimento

Dai carteggi d’archivio si ricava una curiosa notizia: quando l’Amalteo consegnò la pala ai rappresentanti della confraternita, questi, pur apprezzando le buone qualità del dipinto, in un primo momento lo rifiutarono, scandalizzati, perché nel volto della Madonna avevano riconosciuto la fisionomia di “una putta” di Villa di Varmo; ma alla fine l’opera fu accolta.

La pala di Francesco Floreani

Francesco Floreani (1515-1593) è l’autore della bella pala d’altare in cui è raffigurata la Trasfigurazione. La sua firma compare nel margine inferiore a destra “FRANCISVS FLOREANI VTINENSIS 1584”, mentre nella parte centrale in basso abbiamo i nomi dei committenti “ZVANNE DE PVLO MVSILET ET ODORIGO RAFIN CAMERARI / AGNOLO MATHION GASTALDO”.

In questo dipinto, pur notando l’influenza esercitata sul Floreani da Pellegrino da San Daniele e alla lontana dal Pordenone, se ne scorge l’autonoma personalità nell’uso del colore e nella impaginazione generale: l’artista porta in un primo piano la concitatissima azione di tutti i soggetti, articolandoli in diversi orientamenti e colpendoli con varia illuminazione.

Ci troviamo di fronte ad un dipinto in cui il tema viene descritto con forza, in cui è espresso con violenza accecante il bagliore del lenzuolo del trasfigurato, tanto da percepire nella penombra le tre figure concitate degli Apostoli nella parte inferiore. Il Cristo fiero si staglia su nubi dorate, affiancato dalle ieratiche immagini di Mosè ed Elia.

Approfondimento

L’udinese Francesco Floreani (1515-1593) appartiene a una delle più importanti “famiglie-botteghe” di pittori e intagliatori friulani del Cinquecento. Personalità dal multiforme ingegno, fu anche intagliatore, doratore, architetto ed ingegnere.

L'Ecce Homo

Degno di attenzione è il dipinto raffigurante l’Ecce Homo, meglio conosciuto come il Cristo di casa Pancini, in quanto appartenuto a quella famiglia varmese.

Si tratta di un’opera databile alla prima metà del XVII secolo, di ignoto autore veneto seguace della grande lezione tizianesca. Di straordinario impatto tonale, il corpo muscoloso, parzialmente coperto da veste arancio, emerge in tutta la sua fisicità dallo sfondo buio, evidenziando la drammaticità dell’evento.

Il ciclo dei Dolori di Maria di Vincenzo Orelli

Dopo il 1860, certamente quando furono terminati i complessi lavori di ristrutturazione architettonica della chiesa, si registra l’acquisizione di nuove opere figurative per abbellire l’edificio, provenienti dai depositi demaniali dei beni artistici ecclesiastici, dove erano confluiti da chiese, conventi e confraternite soppresse in epoca napoleonica.

In tale modo giunse a Varmo l’imponente ciclo pittorico dei Dolori di Maria di Vincenzo Orelli (1751-1813), pittore nativo di Locarno, attivo prevalentemente a Bergamo e in Lombardia. Orelli aveva eseguito il ciclo per la chiesa del convento femminile dei Sette Dolori di Udine (ora San Valentino in via Pracchiuso), grazie alla presenza di un’Abbadessa lombarda.

Particolare la forma ovoidale dei dipinti, due in orizzontale e cinque in verticale (in origine erano incassati in parete entro stucchi).

Il ciclo comprende, nell’ordine: La presentazione al Tempio, La fuga in Egitto, Gesù fra i dottori, L’incontro di Cristo con la Madre, La Crocifissione, La Pietà e La deposizione nel sepolcro.

Nell’episodio raffigurante Gesù fra i dottori c’è l’iscrizione (a ritroso) con la firma dell’Orelli: “VINCENZO ORELLI FECIT / LANO 1755 BERGAMO / AETATE SUA ANNI 24”.

La presentazione al tempio

La scena si svolge in un interno con fondale dai rimandi veronesiani, di sapore classicista. I personaggi vestono ricchi apparati e le scena si avvalora di particolarità curiose e gradevoli, come il bambino ceroforo alla destra dell’altare, o la simpatica gabbietta dei colombi tenuta sottobraccio da san Giuseppe.

La fuga in Egitto

Raffigura in scorcio la Madonna con Bambino sull’asino, cui san Giuseppe sta guidando il passo sopra una passerella di legno; il paesaggio appare piacevolissimo, “tiepolesco”, ma con un linguaggio personale che nell’impasto cromatico prelude a un gusto tonale quasi neoclassico. È forse l’opera più fresca e luminosa, la più bella e gradita dell’intero ciclo, per la presenza di una natura fantastica che rende il racconto fiabesco.

Gesù fra i dottori

È un’opera importante, perché firmata e datata. Resta il capolavoro di larghissima respiro dell’intera serie. Il brano si avvale della particolare, inedita, rappresentazione iconografica. Interessanti sono le figure dei dottori, per i vivaci atteggiamenti, per la vistosa ricchezza delle vesti all’orientale e la caratterizzazione fisionomica dei singoli. Da osservare il parlottare che si fanno all’orecchio i due dottori, con barba tenera alla luce e vesti intrise di cromia allegra.

Sullo sfondo a destra Maria e Giuseppe, tratti con una pronta, spumeggiante freschezza cromatica.

L'incontro di Gesù con la madre

È quarto dipinto della serie e denuncia un lieve cambiamento iconografico e stilistico. Il colloquio è fatto solo di sguardi, a causa della drammaticità del momento, che coinvolge tutti i personaggi. L’Orelli sembra aver appreso la lezione tiepolesca, ma la svolge in modo più maturo e convincente rispetto a quanto si vede nella Fuga in Egitto.

La Crocifissione

In questo dipinto Orelli riesce ad individuare una cadenza di accenti ritmici e un dinamismo che sono molto rari per uno schema così vincolante. Gli atteggiamenti dei personaggi sono forse un po’ teatrali, ma evidenziano bene, senza appesantimenti, il pathos della morte. Sullo sfondo di un paesaggio plumbeo – con la lontana visione della turrita Gerusalemme – c’è il tragico presagio del fatto che sta per compiersi.

La Pietà

Questo brano, nella consueta iconografia, è orchestrato come una rappresentazione teatrale, per la verità molto ben riuscita. Le figure sono legate fra loro da contorcimenti e scorci decisamente notevoli. Maria occupa la posizione centrale della tela, che presenta una grande ricchezza di pigmenti.

La Deposizione

Infine, nella Deposizione ritroviamo gli stessi personaggi de La Pietà. C’è l’esaltazione del modello del Cristo morto, trattato con vitalità d’accenti plastico-chiaroscurali. Piacevole il gruppo delle Marie, fortemente caratterizzate. Il registro cromatico è più chiaro che ne La Pietà e plastica è la resa ancora barocca delle figure in un impianto formale e spaziale già quasi neoclassico.

Altri dipinti di Vincenzo Orelli

Vengono restituiti dalla critica a Vincenzo Orelli anche i quattro dipinti ovati collocati negli intercolumni della navata, che raffigurano: L’educazione della Vergine (detta sant’Anna), San Rocco, San Giovanni Nepomuceno e San Filippo Benizzi.

Gli affreschi del soffitto

Il pittore vicentino Rocco Pittaco fu autore nel 1862, in appena dodici giorni di lavori, dei dipinti – in passato attribuiti a Domenico Fabris di Osoppo – dell’ampio soffitto della navata, impaginato in tre settori.

Nel mediano è raffigurato San Lorenzo al momento di entrare al Viminale per subirvi il martirio (il santo è il principale patrono della Pieve): il racconto è ambientato entro un tipico e romantico capriccio architettonico idealizzato dell’antica Roma, con audaci scorci prospettici e una cura dei dettagli fisionomici degli effigiati (tutti veri ritratti di gente del paese). Con gli svolazzanti angioletti nel cielo terzo.

Nel tondo verso il presbiterio è dipinto San Marco Evangelista, nella consueta iconografia.

Nell’ultimo brano, quello verso l’ingresso principale, sono dipinti i Santi Ermacora e Fortunato, simbolo dell’origine e sottomissione della Pieve e della Forania di Varmo all’Arcivescovo Metropolita di Udine, erede del Patriarca di Aquileia (di cui Ermacora fu il primo vescovo). L’ambientazione scenografica rievoca la grandezza aquileiese, mentre gli effigiati vestono paludamenti che evidenziano l’importanza del loro ruolo.

Approfondimento

Il vicentino Rocco Pittaco (1822-1898) è una figura significativa di un ben definito contesto storico e culturale, molto attivo in Veneto e in Friuli. Tra le sue opere friulane la più importante è certamente la complessa e sontuosa decorazione della chiesa parrocchiale di Talmassons, nella quale celebra i fasti della Chiesa di Aquileia, con fare solenne e monumentale. Altre sue opere a Pozzecco, Galleriano e Torsa.

I dipinti di Varmo rivelano tutta la bravura compositiva dell’artista, che si impadronisce interamente degli spazi, organizzando ogni scena secondo un ordine ammirevole. I gruppi delle figure si stringono massicci, facendo risaltare il loro significato. In questi lavori è evidente, in alcuni particolari, la derivazione neoclassica, ma l’ariosità delle composizioni e la ricca tavolozza inseriscono questo autore tra i “buoni” seguaci della scuola veneta.

Il Battistero

Tra le opere lapidee, pregevolissimo è il battistero del 1541, che ne sostituisce uno più antico, stilisticamente molto vicino ai lavori di Benedetto Astori: mirabile composizione rinascimentale, con un fusto ornato di fogliami e ghirlanda d’alloro con bacche e fettucce. La coppa presenta un motivo scanalato, mentre nella parte centrale è scolpito lo stemma binato dei conti di Varmo di Sopra e di Varmo di Sotto, facoltosi committenti dell’opera, e il motto HAURITE AQUAS IN GAUDIO DE FONTE SALVATORIS 1541.

L'acquasantiera

Superstite delle ristrutturazioni ottocentesche è un’acquasantiera sezionata in due parti affisse nella controfacciata, ai lati del portale maggiore; purtroppo si sono persi il fusto e il basamento. Si caratterizza per l’ornamento, ricco di simbolismi (delfini, colombe che beccano l’uva, tralci e rosettoni), ma grossolano nella realizzazione.

I dipinti in sacrestia

In sacrestia merita attenzione il dipinto devozionale raffigurante San Carlo Borromeo, molto vicino ai modi di Lucio Candido, attivo nella seconda metà del XVII secolo.

Del XVIII secolo è il Ritratto del cardinale Daniele Delfino, di ignoto autore, forse Giovanni Domenico Ruggeri (1696-1780). Daniele Delfino, che fu ultimo patriarca di Aquileia e primo Arcivescovo di Udine, in questa tela appare vestito con apparati cardinalizi e con rocchetto smagliante di splendido pizzo. È assiso ed indica con la mano destra il galèro, appoggiato sul tavolo. Nell’angolo superiore destro c’è lo stemma del casato, con tre delfini d’oro in campo azzurro, con le insegne patriarcali.