Il Tempio di Cargnacco

Cargnacco

Il Tempio di Cargnacco

Il Tempio di Cargnacco si può considerare la “Redipuglia dell’ARMIR”, collocandosi come l’unico sacrario in Italia dedicato ai caduti e ai dispersi nella campagna di Russia.

Forte è il legame con il territorio friulano, dove è ancora vivo il ricordo della tragedia dell’ARMIR, in cui morirono numerosissimi alpini della divisione Julia, originari della regione.

La campagna di Russia

Per capire le motivazioni del Tempio è opportuno fornire alcuni sintetici parametri storici.

Durante la Seconda guerra mondiale il primo contingente italiano partì per la Russia nel luglio 1941, costituendo il Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), che nel luglio 1942 divenne l’Armata Italiana di Russia (ARMIR), schierato lungo il corso del fiume Don. Nel dicembre 1942 i sovietici, dopo aver conquistato Stalingrado, lo attaccarono annientando, una dopo l’altra, le divisioni che procedevano sul fronte degli alpini, che si trovarono isolati nel territorio nemico ricevendo l’ordine di ripiegamento solo tra il 16 e il 17 gennaio 1943. Furono dunque le truppe alpine ad aprire la marcia verso ovest per uscire dalla sacca (battaglia di Nikolajevka, 26 gennaio 1943) e raggiungere Gomel in Bielorussia. Le perdite furono enormi e difficilmente precisabili: 100.000 dispersi, 70.000 morti nei campi di prigionia. I superstiti tornarono in patria dal 1945 al 1958 alimentando illusioni tra le famiglie, come quella che i dispersi non fossero morti, ma avessero trovato rifugio nelle immensità delle terre russe, facendo credere a un possibile ritorno dei congiunti, come si può notare in numerose scene rappresentate nei mosaici di Cargnacco.

La storia del Tempio

La costruzione del Tempio di Cargnacco non fu dovuta a un impegno dello Stato o di enti pubblici, ma alla volontà dei reduci e in primis a quella di don Carlo Caneva (Udine 1912 - 1992).

Approfondimento

Ordinato sacerdote nel 1936, don Carlo Caneva (Udine 1912 - 1992) partì come cappellano militare della Divisione Tridentina per l’Albania nel 1941 e nel 1942 per la Russia, dove fu preso prigioniero il 23 gennaio 1943 a Warwarowka. Fu deportato in vari lager, tra cui Suzdal e Oranki, e fu liberato nell’aprile 1946, maturando la decisione di erigere un monumento o un istituto per orfani di guerra o un Tempio alla memoria dei caduti. Membro dell’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia (UNIRR), quando nel 1946 fu nominato parroco di Cargnacco vi eresse quello che sarebbe diventato il Tempio di Cargnacco. Era infatti dell’opinione che oltre alla commemorazione dei Caduti, si dovesse pensare al dolore delle famiglie, con la costruzione di un luogo simbolo, dove ricordare i propri congiunti.

Un appoggio determinante in campo governativo fu dato dal senatore Amor Tartufoli (1896 – 1963), padre di Enrico disperso in Russia, che nel 1948 divenne Presidente del Comitato per il Tempio di Cargnacco.

Si iniziò una raccolta di fondi da enti pubblici e privati cittadini, soprattutto familiari dei reduci e dei dispersi, su base volontaria.

Don Caneva, per reperire fondi, si recava periodicamente a Roma e intratteneva rapporti con gli artisti cui commissionava le opere per la decorazione, spesso prescrivendone i particolari iconografici, senza bandi di concorso e in gran parte a titolo gratuito. Ciò spiega il carattere un po’ eterogeneo dell’insieme, dove i lavori procedevano i si interrompevano a seconda dei finanziamenti ottenuti.

Nel 1950 l’inserimento del Tempio nel programma dell’Onor Caduti aprì la strada anche ai finanziamenti pubblici, che coprirono oltre l’80% dei costi.

Fin dal 1956 il Tempio, dedicato alla Madonna del Conforto, divenne anche una chiesa parrocchiale, per volontà di don Caneva. Solo nel 1991 si definì con una convenzione il rapporto tra parrocchia e Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra del Ministero della Difesa, che acquisì un diritto d’uso sul Tempio per dare sepoltura ai resti dei caduti traslati dalla Russia.

Il progetto architettonico e la costruzione

Il progetto e la direzione ufficiale dei lavori furono affidati nel 1948 all’architetto Giacomo Della Mea (Raccolana 1907 – Udine 1968), e il Tempio fu la sua prima opera impegnativa.

La scelta dell’architetto Della Mea fu probabilmente determinata dalla sua biografia, dal suo forte legame con gli alpini e la montagna e soprattutto per l’esperienza di reduce dalla Russia.

I suoi primi progetti, tra cui la scuola professionale di don De Roja, ebbero carattere sociale e ciò spiega perché il progetto iniziale per Cargnacco prevedesse un istituto per gli orfani dei dispersi, dalle moderne linee razionaliste.

Approfondimento

Giacomo Della Mea (Raccolana 1907 – Udine 1968) fu tenente del Battaglione alpino Tolmezzo ed inviato con la Julia sul fronte del Don, ma poco prima dell’assalto russo rimpatriò per sostenete degli esami all’Università di Venezia. Di conseguenza ebbe sempre un senso di rimorso per aver “abbandonato” i propri commilitoni e questo sentimento ebbe un ruolo importante nel fargli accettare la progettazione del Tempio a titolo gratuito, quasi un risarcimento nei confronti dei tanti che non erano tornati.

La sua carriera artistica era iniziata nel 1926 come pittore di quadri di montagna dall’essenziale volumetria novecentesca, diplomatosi nel 1936 all’Istituto d’Arte di Venezia, Della Mea si era iscritto nel 1939 alla facoltà di Architettura di Venezia, laureandosi nel 1946. Il Tempio di Cargnacco non fu l’unica opera disegnata dall’architetto in onore dei caduti di guerra: nel 1958, su suo progetto, eresse sul colle di Buja una grande croce luminosa, decorata con rilievi di Max Piccini, destinata a ricordate i caduti e i dispersi friulani di tutte le guerre.

Nei progetti successivi scomparve il collegio e l’architetto si concentrò sul Tempio, che doveva assumere un carattere monumentale, nonostante nel 1949 la Commissione diocesana d’arte sacra avesse raccomandato una riduzione delle navate da tre a una, dato che il villaggio di Cargnacco era allora poco popolato.

Giacomo Della Mea elaborò più progetti, talora molto diversi da quello realizzato. L’iniziale copertura a spioventi del tetto fu sostituita da una infilata di volte a botte, le pareti laterali da principio dovevano essere ritmate da profonde cappelle comunicanti con due semicilindri esterni, che furono eliminati.

I lavori, dapprima furono portati avanti dalla popolazione di Cargnacco e dai militari del presidio udinese e solo nel 1952 furono affidati a un’impresa edile: ciò comportò una serie di modifiche in corso d’opera, non sempre controllate dall’architetto. Basti pensare che la cerimonia di posa della prima pietra, un blocco di granito trasportato dall’Ottavo alpini dalla vetta del Canin, ebbe luogo il 9 ottobre 1949, ma il Tempio fu inaugurato solo in un piovoso 11 settembre 1955, giornata annuale del Disperso in guerra.

La duplice funzione della chiesa, destinata a parrocchia e a sacrario, spiega alcune incongruenze spaziali, evidenti nelle due unità del presbiterio. Una prima parte con l’altare è destinata a celebrazioni liturgiche e una seconda, comprendente il catino absidale e la sottostante cripta, di carattere monumentale e celebrativo, fu destinata fin dall’inizio ad ospitare la tomba del “Disperso Ignoto”.

La facciata

I moduli architettonici della facciata si collegano agli edifici in stile Novecento di Marcello Piacentini e al palazzo della Civiltà Italiana dell’Esposizione Universale di Roma del 1942, mentre i sarcofagi della facciata, inquadrati dai possenti arconi, si potrebbero ispirare al Tempio Ossario di Udine, progettato da Provino Valle (Udine 1877 – 1955) e Alessandro Limongelli (Il Cairo 1890 – Tripoli 1932). Non va però dimenticata l’influenza di Cesare Pascoletti (Povoletto 1898 – Roma 1986), architetto udinese, allievo di Piacentini e collaboratore nel 1964 di Giacomo Della Mea negli Uffici finanziari di Udine. Infatti, numerosi suoi edifici, tra cui i palazzi di fronte al Duomo e la nuova sede del Seminario a Udine, sono caratterizzati da possenti torrioni, presenti anche nella facciata di Cargnacco, a delimitare il corpo centrale formato da logge a tutto sesto.

Gli orologi che scandiscono il tempo ricordano simbolicamente l’attesa delle madri e delle spose, ma presentano somiglianze anche con la torre dell’orologio dell’Ospedale civile di Udine, eretta negli anni ’40 da Eugenio Mariutti (Udine 1899 – 1981). Forse non è un caso che per l’Ospedale udinese Giacomo Della Mea abbia realizzato una delle prime sue chiese circolari, ispirata alla cripta di Cargnacco, come il Duomo di Cervignano, la chiesa triestina di Gesù Divino Operaio o la parrocchiale di Gonars, architetture religiose dove raggiunse i migliori risultati.

La cripta

Per il completamento architettonico della cripta del Tempio si dovette attendere la caduta del muro di Berlino nel 1989 e i mutamenti che portarono alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Alla fine degli anni ’80 il commissario Generale per le onoranze ai Caduti, generale Benito Cavazza, grazie alle intese con i militari russi, identificò alcuni cimiteri italiani di guerra, la cui esistenza era sempre stata negata.

Approfondimento

Il 3 novembre 1990 fu donata al Tempio la croce del Cimitero di Jussowo, da dove si esumarono i resti di un caduto ignoto, che giunti in Italia nel dicembre 1990 furono tumulati nel sarcofago di marmo scuro, posto nella cripta dal 1955 e rimasto sempre vuoto. Si concretizzò così il sogno di don Carlo Caneva, che morto il 10 maggio 1992, fu sepolto nel 1993 nella seconda cripta, in un’arca sepolcrale di granito rosso. Fu uno dei pochi civili a essere sepolto in un sacrario militare, proprio in segno di riconoscenza per il ruolo avuto nella costruzione dell’edificio.

Da una scala, posta sulla destra del presbiterio, si scende nella cripta dominata dalla scritta CI RESTA IL NOME, dove sono posti 25 leggii, che sostengono i 24 volumi su cui sono riportati i nomi dei morti e dei dispersi nella campagna di Russia, mentre alle pareti si susseguono targhe ricordo apposte da privati e associazioni di reduci, tra cui merita menzionare il rilievo di M. Facchin e quello ligneo del Laboratorio Veritti e Clerici di Forni di Sopra. Di qui si accede al vano circolare, alle cui pareti, entro archi ciechi, sono posti gli undici stemmi in pietra delle divisioni presenti in Russia, mentre due in rame sopra l’ingresso ricordano la Divisione Aereonautica e la Flottiglia Mas operante nel Mar Nero. Al centro dello spazio, aperto verso il presbiterio, si trova l’arca del Soldato ignoto.

Dal 1991 il recupero dei resti continuò, tanto che fu necessario ampliare la cripta progettata da Giacomo Della Mea. I lavori, terminati nel 1993, furono affidati all’architetto Gianfranco Pascutti, che aprì due aperture di collegamento con il secondo spazio rettangolare: sulla parete di fronte all’ingresso furono posti i resti di 588 caduti “noti, non identificati”, cioè i cui nomi risultavano negli elenchi ufficiali dei deceduti, ma i cui resti non erano stati identificati, sulla parete d’ingresso il sarcofago di don Caneva.

Nel corso degli anni il numero delle salme rimpatriate da Ucraina e Russia aumentò tanto da rendere necessaria la costruzione di un’altra cripta dietro l’abside. Il progettista fu sempre l’architetto Gianfranco Pascutti, che tra il 2002 e il 2004 eseguì in secondo vano, non aperto al pubblico e destinato ad accogliere in loculi comuni i resti di soldati in alcun modo identificabili.

Il piazzale davanti al Tempio

Fin dagli anni ’50 ci si sforzò di dare una degna cornice al Tempio, visibile da lontano nella campagna friulana.

Già nel 1955 fu apprestata una vasta piazza rettangolare, attualmente dedicata a don Carlo Caneva, ritmata sui lati lunghi da 12 cippi lapidei, che ricordano le divisioni e i reparti dell’ARMIR: Tridentina, Julia, Celere, Raggruppamento Camice nere, Aeronautica e Flottiglia Mas, Ravenna, Sforzesca, Pasubio, Torino, Cosseria, Vicenza.

Approfondimento

Al centro l’asta reggi bandiera, donata nel 1998 dalla Sezione di Udine dell’Associazione Nazionale Alpini, il cui basamento bronzeo è stato ideato dallo scultore Gianfranco Malison (Udine 1933 – 2004). La scultura rappresenta un mazzo di girasoli, assunti a simbolo delle campagne russe, e sulla base circolare iscrizioni bronzee ricordano le posizioni italiane sul Don.

Il pilo reggi bandiera è una delle ultime opere del maestro Malison, medaglista e scultore, formatosi a Venezia, figlio del pittore Luigi e fratello di Melisenda de Michieli Vitturi, raffinato acquerellista.

L'atrio e la controfacciata

Dalle tre porte d’ingresso si accede a un atrio decorato con tre affreschi di Michele Ugo Galliussi, commissionati dall’Associazione Nazionale Granatieri del Friuli Venezia Giulia. Il trittico, datato 1994, raffigura: Un episodio di coraggio occorso il 19 dicembre 1942; La resistenza a Jagodnij ambientata in un campo di girasoli; Donna russa soccorre i feriti, al centro, come emblema della Pietà universale. Questi affreschi sono gli ultimi dipinti realizzati a Cargnacco da Galliussi, che vi operò dal 1979.

Come spesso accade, alle pareti furono aggiunte altre opere di committenza privata con caratteri spesso non omogenei tra loro.

Un murale, eseguito con colori acrilici da Luisa De Trizio, raffigura I soldati della Divisione Torino in marcia (1997-1998).

Sulla destra un pannello ceramico è dedicato a Cristo consola chi soffre (1996), opera di Walter Bartoli e Adelmo Cornacchia, titolari dal 1957 di una manifattura ceramica a Brisighella, specializzata in decorazioni di soggetto sacro di grandi dimensioni. Bartoli, allievo del ceramista Biancini attivo anche a Torviscosa, modella le plastiche figure con segni graffiti, mentre Cornacchia si occupa del colore. L’opera fu commissionata da Amalia Cavazza Mezzetti, vice presidente dell’UNIRR di Bologna, che nel 2006 ha offerto un secondo pannello della stessa manifattura, dal titolo Il grande Conforto, in ricordo dei cappellani militari, tra i quali don Enelio Franzoni, don Caneva e Giovanni Brevi. Questa ultima opera, con dorature che caratterizzano l’ultima produzione Bartoli-Cornacchia, è disposta al fianco della precedente.

Sulla parete sinistra dell’atrio è posta anche una ceramica di Oscar Romanello, che raffigura Cristo risorto che dona la Pace, eseguita nel 2000.

Sulla parete destra dell’atrio si apre un vano dove sono state raccolte numerose targhe ricordo dei caduti e dei dispersi, che rinserrano la croce del cimitero militare di Iussowo, recuperata nel settembre del 1990. Di qui si può accedere a una stanza comunicante dove sono conservate una serie di tele e gli stendardi delle confraternite, provenienti dalla vecchia chiesa di Sant’Antonio a Cargnacco. Sono dipinti anonimi di modesta fattura ottocentesca: una Madonna della Pace, un San Michele che trafigge il drago, un Sant’Antonio, una Madonna di Lourdes e una Santa Lucia della Confraternita del Santo Rosario, un Sant’Andrea e due Madonne con Bambino, cui si devono aggiungere parti dei baldacchini processionali.

La pila dell’acquasanta della vecchia chiesa, datata 1569 e opera di lapicidi lombardi, si trova invece nel vano da cui parte la scala verso la cripta.

Approfondimento

Come la costruzione anche le opere d’arte e le decorazioni del Tempio non furono frutto di un progetto unitario, ma aggiunte nel tempo. Il linguaggio usato fu quello di matrice realistica, facilmente comprensibile, quasi una Biblia pauperum, che ben si addiceva alle intenzioni didascaliche dei committenti. Associazioni di reduci, parenti dei caduti ponevano e pongono nel tempo opere a ricordo dei loro cari, guidati dai sentimenti più che propositi artistici. Mosaici, ceramiche, oggetti vari diventarono quasi degli ex voto, rendendo il monumento qualcosa di unico e di profondamente legato alla memoria collettiva e alla religiosità popolare.

Le decorazioni possono essere suddivise in tre fasi: i mosaici, la Via crucis ed altari eseguiti tra il 1955 e il 1963; le vetrate, le ceramiche e i rilievi bronzei databili agli anni Settanta; le opere successive, fino ai nostri giorni.

Il Tempio, dunque, è un immenso cantiere di lavoro della memoria, anche quando vengono meno i testimoni diretti degli avvenimenti. Non è quindi un caso se vicino ad agni arredo è posto sia il nome dell’offerente sia quello del militare alla cui memoria è dedicato. Le targhe in rame ricordano i caduti con una puntigliosa enumerazione delle date di morte, certa o presunta, quasi a ricercare e suscitare ricordi e informazioni. Spesso i committenti si ripetono, come pure le manifatture, il carattere di offerta volontaria delle opere e i palesi intendimenti commemorativi rendono difficile discriminare le opere, che vengono così a sovrapporsi al di fuori di ogni legame stilistico o di criteri di qualità. Generalmente le opere decorative sono inaugurate in due date ricorrenti: in settembre a celebrare la Giornata del Disperso o in gennaio a commemorare la battaglia di Nikolajevka.

Le vetrate e gli affreschi

Uscendo dall’atrio ed entrando nel Tempio, voltandosi verso la controfacciata si possono notare le tre grandi vetrate degli arconi frontali. Furono eseguite da Alessandro Ricardi di Netro (Torino 1924 – Strassoldo 2003), incisore formatosi all’Albertina di Torino, autore di affreschi e di vetrate, in cui esprime un immaginario da favola. Solo quella centrale è a lui interamente attribuibile per disegno e manifattura: raffigura Il Calvario della Divisione Celere, con l’immagine tradizionale della Madonna della Misericordia, che protegge sotto il suo mantello alcuni fanti. Fu commissionata a ricordo di Pompeo Fox, identificabile nella figura isolata in basso a destra, dalla vedova nel 1967.

Le altre due vetrate furono invece eseguite tra il 1968 e il 1970 nel laboratorio Ricardi di Netro su disegno di Arrigo Poz (Castello di Porpetto 1929 – Risano di Pavia di Udine 2015), noto pittore friulano di matrice neorealista, che si è cimentato con successo anche in questo genere.

Nella vetrata di destra si raffigura Il sorteggio del pane, traducendo in figurazione la scena vissuta da don Caneva nel campo di Suzdal, di cui si nota il torrione di accesso, uguale a quello raffigurato in un acquerello conservato nel Museo. Non essendoci cibo a sufficienza, un prigioniero a turno sorteggiava a che dare le fette di pane, per evitare contestazioni. Arrigo Poz rende i particolari con un disegno incisivo ed espressionista, evidenziato dai listelli di piombo: si possono notare le fasce gialle che i prigionieri portavano al braccio e di cui alcuni esempi sono conservati nel Museo.

L’altra vetrata fu donata da don Onelio Franzoni, cappellano militare prigioniero in Russia, e raffigura La messa nel campo di prigionia di Suzdal, opera di C. Romoli.

Le due vetrate presentano uno schema prospettico simile con una finestra sullo sfondo e una cornice arcuata, in cui compaiono fiocchi di neve e girasoli, cifra decorativa del Tempio.

Approfondimento

Arrigo Poz fu emotivamente coinvolto nel disegno delle vetrate, poiché don Caneva, durante la prigionia, aveva assistito, il 16 ottobre 1943, alla morte del tenente Amelio Paviotti, suo primo maestro di pittura.

Anche i due rosoni posti al centro della navata, realizzati nel 1987 dalla Vetreria di Marco Pascuetti, ripropongono i motivi del fiocco di neve e del girasole, assunti a simboli della campagna di Russia.

L’arcone in alto sulla controfacciata fu decorato nel 1989 da Michele Ugo Galliussi (Udine 1963). Raffigura don Mazzoni, cappellano militare dei Bersaglieri, mentre benedice feriti e morenti prima di cadere egli stesso. Pittore, scenografo ed illustratore, Galliussi ha operato a lungo per il Tempio di Cargnacco e in altre imprese decorative a Gemona. La sua pittura è caratterizzata da grafemi istintivi ed energici, con un fare veloce, spontaneo ed immediato.

Altri mosaici furono aggiunti in controfacciata senza alcun coordinamento con le vetrate e gli affreschi: La marcia degli Alpini (1998), La resistenza della Legione Tagliamento a Woroschilowa (1979). Emerge per qualità esecutive il mosaico eseguito nel 1999 da Rino Pastorutti, già direttore della Scuola di Spilimbergo, raffigurante il cippo che ricorda i caduti italiani nel campo di Tiomnikov.

Una decorazione anni Cinquanta

Tra il 1955 e il 1959 la decorazione dell’abside e della navata assunse un carattere unitario, probabilmente grazie all’intervento dell’architetto Giacomo Della Mea, che curò i particolari d’arredo, chiamando gli artisti a lui più vicini. Mosaici, sculture, ceramiche offrono un quadro che ben rappresenta l’arte degli anni Cinquanta, lontana da ogni sperimentazione e per lo più legata a soggetti figurativi tipici di certo Neorealismo friulano.

Nell’abside Giacomo Della Mea ideò l’altar maggiore in marmo bianco (1955 - 1956) su esili colonne nelle forme già sperimentate nelle contemporanee chiese dell’Ospedale civile di Udine (1957) e nella chiesa triestina di Gesù Divino Operaio (1955).

Fu decorato con espressionistici rilievi bronzei, opera di Max (Udine 1899 – Tricesimo 1974) e Giulio (Udine 1923 - 2010) Piccini, scultori udinesi con cui l’architetto operò spesso. Max Piccini, fraterno amico di Fred Pittino, con l’aiuto del figlio eseguì le formelle della predella riproducenti i simboli degli Evangelisti, mentre l’agnello sacrificale fu sostituito da un pellicano che si strappa le penne per nutrire i piccoli, antico simbolo di Cristo che si sacrifica per l’umanità.

Sul sostegno centrale fu posto invece lo stemma dei committenti, la famiglia Alberotanza di Bari, mentre la lampada con l’angelo in preghiera fu eseguita dal laboratorio Zanetti di Vicenza.

Della Mea grande importanza ai mosaici: la superficie rotonda dell’abside è decorata da una Pietà, una livida Madonna che sorregge il Cristo morto, affiancata, secondo l’iconografia giottesca, da sei angeli dolenti, opera del pittore Fred Pittino (Dogna 1906 – Udine 1991). Il mosaico absidale, eseguito tra il 1956 e il 1957, fu donato da papa Pio XII.

L’abside è ritmata dalle quattordici formelle della Via Crucis (1956 – 1958), realizzate in terracotta da Max Piccini con un modellato espressionistico e che si distinguono da quelle contemporanee per la chiesa del Seminario di Udine (1956), per la cornice a forma di croce. La prima stazione fu apposta nel 1956, donata da Amor Tartufoli in ricordo del figlio Enrico, le altre furono scaglionate secondo una direttiva stilistica univoca.

Sempre nella zona presbiteriale sopraelevata Fred Pittino dipinse i cartoni per due grandi mosaici (metri 3,50 x 7) con tessere di pietra naturale, realizzati dalla Scuola Mosaicisti di Spilimbergo, nel consueto stile illustrativo e figurativo.

Sulla parete sinistra si trova La ritirata degli alpini, offerto nel 1957 dalla Cassa di Risparmio di Udine, raffigurante una ampia inquadratura prospettica della colonna che si perde nel biancore della neve, che trova raffronti nelle fotografie conservate nel Museo.

Sulla parete di fronte il secondo mosaico fu offerto dalla Banca Commerciale Italiana nel 1962. Il realismo fotografico del primo si stempera in un montaggio di tre distinti episodi: La prigionia, L’attesa delle famiglie, Il ritorno del soldato. Il tema era molto sentito dai commilitoni e fu più volte trattato nel Tempio.

I due mosaici si completano a vicenda, raffigurando l’uno il dramma dei sopravvissuti e dei reduci e l’altro quello dei prigionieri e delle famiglie.

Il sodalizio artistico tra il pittore Fred Pittino e lo scultore Max Piccini si ripete negli altari laterali. Lo schema usato è identico: un semplice altare, una statua nella nicchia centrale posta all’interno di un mosaico.

Nella navata destra si trova l’altare della Madonna del Conforto, eseguito tra il 1955 e il 1956 dalla Scuola di Spilimbergo: raffigura entro un contorno irregolare le figure di un reduce e quella della madre ai lati della statua della Madonna in marmo di Carrara. Questa fu disegnata da Max Piccini e realizzata dallo scultore Giovanni Patat di Avignone.

L’altare sinistro, posto in una posizione speculare, e dedicato a sant’Antonio, cui era dedicata la chiesa precedente. Il mosaico (del 1963) raffigura sulla sinistra la tomba di Giacomo Gri, deceduto per fame nel 1943 in prigionia, e gli anziani genitori all’interno della casa friulana con il focolare e l’altare. Il mosaico fu eseguito, secondo lo stile figurativo di Fred Pittino, dal mosaicista Angelo De Carli.

La statua di sant’Antonio, posta al centro, fu fusa in bronzo nella fonderia di famiglia da Max Piccini, con l’aiuto del figlio Giulio, e riproduce le fattezze di Manlio Pirini, al cui ricordo fu dedicata dalla famiglia.

Ceramica d’autore

Nella navata del Tempio, oltre ai mosaici assumono grande rilievo artistico i grandi pannelli, che offrono il meglio della produzione ceramica del secondo dopoguerra. Anche in questo caso don Caneva affidò gli incarichi agli artisti che sapeva più emotivamente coinvolti, come Enore Pezzetta Buja 1918 – 1995), che era stato internato in un lager della Polonia.

Sulla parete sinistra Pezzetta eseguì nel 1971-1972 il primo dei grandi pannelli ceramici destinati al Tempio Il bagno ad Orankj.

Approfondimento

Nel campo di Orankj era stato internato don Carlo Caneva, che ne fece una dettagliata descrizione allo scultore Enore Pezzetta. Il pannello raffigura i periodici bagni di disinfestazione dai pidocchi, quando i prigionieri, debilitati e malati, spesso morivano per il forte sbalzo di temperatura tra esterno e interno. Pezzetta usò una prospettiva inversa: in alto si trova l’ingresso del lager, seguono verso il basso alcuni internati che trasportano i cadaveri dei compagni, mentre nella parte più basa, idealmente più vicina ai visitatori, i condannati entrano rassegnati nella baracca di disinfestazione, rappresentata di scorcio. Su un fondo di grandi tessere irregolari di marmo si dispongono ad altorilievo:

Sulla stessa parete vicino all’ingresso, Pezzetta ambientò nel 1975 La battaglia di Nikolajewka.

Approfondimento

In questa ceramica Pezzetta ambientò la scena secondo i racconti dei reduci: il villaggio si vede oltre il terrapieno della ferrovia, trasformato dai russi in trincea. Verso il sottopasso al centro della conca si ammassarono in una “infernale bolgia” i reparti, falcidiati dai colpi di artiglieria e dall’aviazione, con temperature tra i 30° e 35° sottozero. Incitati dal generale Reverberi in piedi sul semovente tedesco, i reparti della Tridentina e tutti i superstiti sfondano le linee russe segnando l’uscita dalla sacca. A differenza del precedente, dove il fondo costituisce parte dell’opera, il pannello è costituito interamente da moduli ceramici.

Il pittore Anzil definì i due pannelli, di ben 12 metri per 4, tra le più importanti opere d’arte eseguite in Friuli. L’altorilievo offrì a Pezzetta la possibilità di modellare e graffire la superficie con un abile uso degli smalti, che rifiniscono le figure con un tormento espressionista della mano, dove si traduce il turbamento dell’animo. La concezione materico-coloristica della ceramica di Pezzetta raggiunge qui i suoi risultati migliori.

Caratteri meno espressionistici caratterizzano il pannello posto sulla parete destra, raffigurante La carica della cavalleria ad Isbuscenskij. L’episodio racconta l’ultima carica della cavalleria italiana, effettuata dalla Savoia Cavalleria il 24 agosto 1942, rappresentata dall’allora quindicenne Michele Ugo Galliussi in un bozzetto tradotto in ceramica da Giancarlo Piani. La confusione della battaglia in cui i cavalli e i cavalieri si gettarono contro le mitragliatrici è resa con le opposte direzioni di movimento e con le lame d’acciaio tridimensionali, eseguite dalla ditta De Cecco di Pozzuolo.

Tra il 1980 e il 1981 sulla stessa parete l’artista Andrea Pavon eseguì l’ultimo grande pannello ceramico del Tempio, raffigurante La Julia sul Don. Nella zona superiore sono raffigurati alcuni episodi della lotta della Julia nella steppa gelata, mettendo in evidenza gli attacchi ai carri armati con moschetti e bombe a mano. Nella zona inferiore sono raffigurati invece una scena simbolica, Cristo che, sporgendosi dalla Croce, accoglie un alpino morente, tra i girasoli reclinati. L’intenzione era quella di rappresentare non tanto il conflitto, quanto l’accettazione dolente degli avvenimenti.

Gli amboni ai piedi del presbiterio sono decorati con due bassorilievi bronzei (1979) opera dello scultore bellunese Massimo Facchin, reduce di Russia, che vi raffigurò i suoi ricordi personali, ritraendosi nel soldato che trascina la slitta.

Il bassorilievo sinistra raffigura in alto la lotta impari tra i soldati e i carri armati e l’importanza che ebbero i muli nel trasporto delle slitte con i feriti.

Sempre Massimo Facchin fu contattato dalla madre del caduto tenente Silvio Polidori, raffigurato proprio come negli ex voto, nell’angolo in alto a sinistra, per il rilievo posto sul pulpito destro, dove è illustrato l’aiuto fornito dalla donne russe ai soldati italiani.

Nella cripta, ancora Facchin realizzò un rilievo bronzeo, con una lunga teoria di madri piangenti sulle croci poste sulle rive del Don.

Approfondimento

Riprendendo un’idea di don Carlo Caneva, nei tardi anni Ottanta la sezione friulana dell’UNIRR volle realizzare un Museo storico, unico nel suo genere in Italia e complementare al Tempio, che raccogliesse le testimonianze materiali, documentarie e fotografiche della campagna di Russia.

Al progetto diedero un fondamentale contributo Luigi Grossi, Soprintendente al Tempio, Guido Fulvio Alviani, appassionato collezionista di uniformi, e Andrea Miani, collezionista di corrispondenza di guerra.

In esso sono raccolti cimeli, carte topografiche, fotografie, documenti, pubblicazioni, uniformi, armi e altri oggetti che si riferiscono alle operazioni militari sul fronte orientale 1941-1942. I reperti, eterogenei e di diversa proprietà, mantengono quello stesso carattere di opera collettiva in continuo farsi e perenne trasformazione, che caratterizza il Tempio.