Il palazzo dei Patriarchi in Udine

Palazzo Patriarcale di Udine

Il palazzo dei Patriarchi in Udine

Le origini del palazzo

La secolare storia del palazzo Patriarcale, ora abitazione dell’Arcivescovo di Udine, è strettamente legata alle vicende del Patriarcato di Aquileia, un’istituzione che esercitò il proprio potere dai primi secoli dopo Cristo fino al 1751, allorché fu soppressa dando luogo ai due arcivescovadi di Udine e Gorizia.

I patriarchi da principio ebbero residenza ad Aquileia, ma nel 568 il patriarca Paolino, temendo i Longobardi che avevano invaso il Friuli, si rifugiò nell’isola di Grado. Mentre nel 617 il patriarca Giovanni si trasferì a Cormons, in territorio longobardo, al riparo dalle scorrerie bizantine.

Nel 730 fu eletto patriarca il longobardo Callisto, che nel 737 trasferì la sede patriarcale da Cormons a Cividale, allora capitale del Ducato longobardo del Friuli. Nel 1019 il patriarca Poppone ritornò ad Aquileia, rinnovando la basilica di età paleocristiana.

Dal 1077 i patriarchi avevano ricevuto un’investitura feudale, con prerogative ducali, su tutta la Contea del Friuli, divenendo in tal modo “sovrani” temporali del Friuli.

Nel XII secolo i patriarchi si spostarono a Udine e posero la loro residenza ufficiale nel castello sul colle, ai cui piedi si sviluppava la città. Il Patriarcato, comunque, manteneva la propria sede ad Aquileia.

Dopo l’occupazione veneziana del Friuli nel 1420 il castello di Udine fu confiscato e divenne la residenza del Luogotenente della Patria del Friuli. Di conseguenza, per oltre in secolo i patriarchi dovettero mendicare ospitalità presso la nobiltà cittadina e la loro presenza a Udine divenne sempre più rara, preferendo dimorare a Venezia.

 

Il primo nucleo di quello che in seguito diventerà Palazzo patriarcale era una delle costruzioni poste sul lato sud-est della trecentesca chiesa di Sant’Antonio abate.

Solo nel 1524, con il patriarca Marino Grimani, sorse una dimora veramente degna, Infatti, secondo la tradizione fu per sua volontà che venne eretto un edificio, simile a una torre a tre piani con soffitta.

Marino Grimani morì nel 1548 e gli successe il fratello Giovanni, al quale un insieme di vicende impedì di stabilirsi a Udine, nonostante l’obbligo di residenza imposto ai Vescovi dal Concilio di Trento. Vi soggiornò soltanto per qualche mese, dimorando però in palazzo Antonini nell’attuale piazza Garibaldi.

Sarà il successore Francesco Barbaro (1593-1616) che conferirà un aspetto consono alla residenza patriarcale udinese.

Approfondimento

Di quella prima residenza sussistono delle tracce nell’atrio d’ingresso dell’attuale Palazzo, dove si possono ammirare di lacerti d’affresco del XV secolo, che raffigurano la Fede, la Speranza, la Carità, la Giustizia e la Fortezza: quest’ultima riveste notevole interesse, anche storico, poiché regge una torre sulla quale un vessillo mosso dal vento porta lo stemma di Udine. 

Il palazzo seicentesco

Probabilmente su disegno dell’architetto Francesco Florerani nel 1601 fu completato l’edificio centrale a tre piani, affiancato da due costruzioni gemelle. In quella a sud-est, la cosiddetta “Torre Grimani”, con la sala affrescata da Giovanni da Udine.

Al centro della facciata si apre un imponete portone in pietra che reca un mascherone al sommo e un timpano con cornice sagomata spezzata entro cui campeggia lo stemma del patriarca Francesco Barbaro.

 

Nella seconda metà del Seicento il palazzo fu dimora del patriarca Giovanni Dolfin (o Delfino), cardinale, poeta e letterato. Gli succedette il nipote Dionisio Dolfin (1699-1734).

Il palazzo nel Settecento

A Giovanni Dolfin succedette il nipote Dionisio Dolfin (1699-1734), che fece ristrutturare dall’architetto Domenico Rossi la facciata (completata intorno al 1730) e poiché Udine, come la maggior parte delle città italiane, a quell’epoca era ancora sprovvista di una pubblica biblioteca, volle che l’ala sinistra della sua nuova residenza fosse destinata ad ospitarne una: alla costruzione di questa parte dell’edificio attese il capomastro Luca Andrioli.

Sulla facciata, severa e rigorosa, priva di elementi decorativi, lapidi e scritte tra le finestre del secondo piano muovono comunque la lettura: in una è riprodotto, in elegante bassorilievo, lo stemma del patriarca Dionisio Dolfin; in un’altra è ricordata la fondazione della Biblioteca dolfiniana, 1708; in una terza compare una scritta commemorativa dei lavori di ampliamento del palazzo, 1718.

Approfondimento

Il veneziano Domenico Rossi (1657-1737) è stato un protagonista dell’architettura del patriziato veneto e friulano: su commissione della famiglia Savorgnan, in giovane età aveva sistemato palazzo Barco ad Osoppo e realizzato il disegno per la chiesa di San Pietro nella stessa località, prima di essere chiamato dal patriarca Dionisio Dolfin a riformare il palazzo patriarcale, la cui facciata, priva di elementi decorativi, ben riflette nella ritmica scansione dei pieni e dei vuoti l’incondizionata ammirazione del Rossi per Longhena, anche se le strutture già esistenti ne hanno limitato in un certo senso la creatività. 

Nel 1725 il palazzo aveva assunto una sistemazione pressoché definitiva con la costruzione, su progetto di Domenico Rossi, dell’imponente e scenografico scalone d’onore, decorato nel 1726 da Giambattista Tiepolo, con la Caduta degli angeli ribelli.

Con questo dipinto ha inizio quel complesso e organico discorso teologico che sta alla base della decorazione pittorica dell’intero palazzo, suggerito al patriarca Dionisio Dolfin dai suoi colti consiglieri. Infatti, è rappresentata la storia del peccato che sta all’origine dell’umanità.

Nel 1727 Tiepolo affrescò la Galleria, un ambiente adiacente alla Sala del Trono, realizzato ad uso degli illustri ospiti che attendevano di essere ricevuti da patriarca. Vi affresca Storie degli antichi patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe.

Dionisio Dolfin, morto il 3 agosto 1734 a San Vito al Tagliamento, dove aveva fondato un monastero per le salesiane, non poté vedere ultimati i lavori di quella chiesa di Sant’Antonio dove pure avrebbe trovato sepoltura. La sua opera fu tuttavia portata avanti dal nipote e successore Dionisio Dolfin, che nel 1739-1740 eresse l’ala dell’archivio, parallela allo scalone, ed abbellì col poggiolo la facciata posteriore dell’atrio.

Nel 1751, a inevitabile conclusione delle aspre controversie tra l’Austria e Venezia, con bolla del 6 luglio papa Benedetto XIV decise la soppressione del patriarcato di Aquileia. In suo luogo furono erette due arcidiocesi: quella di Udine per le terre venete e quella di Gorizia per le terre nei confini dell’Impero asburgico.

Daniele Dolfin diventò così primo arcivescovo di Udine, ma poté comunque conservare a vita il titolo di patriarca.

Il palazzo nell’Otto e Novecento

Nel 1827 il conte Gregorio Bartolini donò al vescovo di Udine le preziose collezioni numismatica e bibliografica raccolte dal fratello Antonio; per dare loro una degna collocazione, l’arcivescovo Emanuele Lodi eresse un edificio a tre piani, che partendo dall’ala della Biblioteca si allacciava alla rimessa delle carrozze, che venne sopraelevata con la creazione di tre stanze al secondo piano.

Inoltre, furono decorate in stile impero alcune stanze al primo piano, in cui sono ora ospitate le raccolte di oreficeria del Museo diocesano e sculture lignee del XIII-XV secolo. Affreschi che, firmati dal pittore udinese Giovanni Battista Cometti e datati 1824, oltre a partiture geometriche, coloratissimi vasi di fiori, segni zodiacali, raffigurano quattro paesaggi di fantasia di un gradevole romanticismo, animati da figure in abiti signorili alla modo del tempo o da persone intente a vari lavori di quotidiana utilità. Desta curiosità la presenza, su un paio di caseggiati, di bandiere tricolori che garriscono al vento.

Risalgono agli anni Cinquanta del Novecento gli ultimi importanti lavori di sistemazione dell’imponente edificio, che consta di quattro piani e si sviluppa per una lunghezza di ben 74 metri su una altezza di 18.

Dopo il terremoto del 1976 l’arcivescovo Alfredo Battisti maturò l’idea di permettere a tutti di godere delle incredibili bellezze artistiche conservate nel palazzo, al tempo sua abitazione, aprendolo al pubblico e trasformandolo in una prestigiosa sede del Museo diocesano, che al tempo era allogato nel seminterrato del Seminario di viale Ungheria.

L'atrio

Le pareti dell’atrio che si apre entrando dal portone sono decorate, in alto, con affreschi databili a fine XVI inizio XVII secolo: ai lati delle finestre San Pietro e San Paolo, nel lunettone di fronte un Crocifisso tra i santi aquileiesi Ermacora e Fortunato con Ilario e Taziano, i santi vescovi Valeriano, Cromazio, Niceta e il patriarca Paolino; nelle otto lunette i santi patroni delle sedici diocesi suffraganee di Aquileia.

Il giardino

Dallo stretto sottoportico d’ingresso si passa ad un minuscolo giardino a forma rettangolare.

Lungo i due muri di cinta laterali e sui pilastri di fondo sono sistemate 24 statue allegoriche in pietra tenera di Vicenza databili al 1730-1735 circa, attribuite alla bottega di Agostino Testa e ai poco noti Giacomo Cassetti e Francesco Iliaco.

Sul lato sinistro le statue simboleggianti: il Merito, l’Asia, l’Occidente, l’Africa, il Mezzodì, la Notte, l’Alba; sul lato opposto, l’Amor di virtù, l’Europa, la Ricompensa dei meriti, la Costanza, la Chiesa, l’America (?), l’Abbondanza.

Sui pilastri di fondo la Pietà, la Giustizia, la Verità, la Fedeltà, Venere celeste, la Pace, la Carità, la Sapienza e la Fortezza.

Lo scalone

L’imponente e scenografico scalone d’onore fu costruito nel 1725, su progetto di Domenico Rossi.

A più rampe, con eleganti pilastrini in pietra, decorato con piacevoli stucchi, ha nel soffitto l’elemento suo più spettacolare, un imponente ciclo di affreschi di Giambattista Tiepolo (1696-1770), condotto entro un sontuoso apparato decorativo in stucco bianco dovuto a Giovanni Maria Andreoli, cui spetta anche l’imponente insegna del patriarca Dionisio Dolfin (tre delfini dorati in campo azzurro) sostenuto da due robusti putti.

Nell’elaborata cornice centrale è raffigurata la Caduta degli angeli ribelli: tre angeli, dai corpi aggrovigliati ai serpenti, precipitano in basso, verso Lucifero che con il braccio sinistro, realizzato in stucco dipinto, spezza la cornice per accentuare l’illusione prospettica della caduta. L’impasto cromatico è denso, tenuto su toni bruno rossastri. Solo, in alto, l’arcangelo Michele con la spada in mani si libra nel cielo che comincia a dilatarsi e a diventare trasparente.

È la prima opera che Giambattista Tiepolo esegue nel palazzo patriarcale, probabilmente nella primavera del 1726.

 

Attorno al dipinto centrale, nel guscione di raccordo con le pareti, tra esuberanti stucchi, Tiepolo illustra i primi capitoli della Genesi: Dio crema Adamo, Dio crea Eva, Il serpente seduce Eva, Eva consegna la mela ad Adamo, Adamo ed Eva prendono coscienza della loro nudità, Dio crea Adamo ed Eva, Dio condanna ed Eva, L’angelo caccia Adamo ed Eva dal paradiso.

Si tratta di freschissimi, e nelle concezione modernissimi, monocromi in violetto lumeggiato di bianco, che proiettano su un fondo dorato figure umane ed elementi paesaggistici, conferendo loro un accentuato plasticismo. Nei vari episodi in cui compare, Dio padre presenta sempre un insolito e sorprendente aspetto giovanile.

Il Museo diocesano

Il 29 aprile 1995 fu inaugurato il Museo diocesano e Gallerie del Tiepolo, nel quale un’esposizione di sculture lignee, dipinto, oreficerie, ex voto e vetri dipinti (parte dell’intera collezione di circa settecento opere) contribuisce a rendere ancora più importante la prestigiosa istituzione della quale fanno parte gli affreschi di incredibile bellezza di Giambattista Tiepolo e di Giovanni da Udine, la Biblioteca Patriarcale e i mirabili stucchi settecenteschi.

Di particolare importanza la ricca collezione di sculture lignee, attraverso le quali è possibile ricostruire la storia della scultura lignea friulana dal XII al XVIII secolo, con capolavori assoluti, quali l’elegante statua di Sant’Eufemia, il più importante prodotto di arte lignea del Trecento in Friuli; l’emozionante bassorilievo con la Dormitio Virginis di ignoto intagliatore tirolese del secolo XV; e la pala d’altare dipinta e dorata, ricca di statue inserite in una fastosa struttura architettonica, eseguita nel 1488 dal maggiore intagliatore locale dell’epoca, Domenico Mioni da Tolmezzo, per la pieve di Santa Maria Maddalena a Invillino in Carnia. Inoltre, sculture di Antonio Tironi, Giovanni Martini, Giacomo Martini, Giovanni Antonio Agostini, Girolamo Paleario.

Numerosi sono anche in dipinti di pregio, tra i quali La soppressione del Patriarcato di Aquileia, realizzato nel 1751 dall’importante pittore romano Placido Costanzi e donata a Benedetto XIV, il papa che aveva soppresso il Patriarcato di Aquileia.

Inoltre, l’Interno del duomo di Udine durante il concilio provinciale del 1596, del pittore fiammingo Ludovico Toeput detto il Pozzoserrato, quadro particolarmente importante dal punto di vista storico perché ci mostra l’interno del duomo di Udine prima della riforma settecentesca.

Di notevole valore è anche la Vergine in trono con Bambino, dell’udinese Odorico Politi (del 1815-1816), autore tra i più apprezzati dell’Ottocento.

Per quanto riguarda l’oreficeria, merita attenzione la preziosa Legatura di Evangelario proveniente dall’antica Pieve di San Pietro in Carnia, opera composita che al centro della valva anteriore, delimitata da una cornice in lamina d’argento, presenta una placca d’avorio di forma rettangolare con l’immagine ieratica del Cristo Pantocratore e nella valva posteriore due formelle eburnee con i busti della Vergine e di San Giovanni che sovrastano le immagini a figura intera di San Giorgio e San Teodoro di Tiro, databili alla seconda metà del X secolo, raffinato prodotto di un atelier di Costantinopoli.

Naturalmente, trattandosi di un Museo diocesano che tiene conto anche di quella che è stata la devozione popolare della gente friulana nei secoli, sono esposti numerosi, poetici, ingenui ex voto e una collezione di vetri dipinti, di origine mitteleuropea, unica in regione.

La Sala del Trono o dei Ritratti

Si deve al patriarca Francesco Barbaro (1593-1616) la Sala del Trono o dei Ritratti, che si articola con un insolito ciclo di affreschi che iniziano con l’affermazione della tradizione marciana delle origini del Patriarcato di Aquileia: nel primo dipinto è infatti raffigurato San Marco che scrive il suo Vangelo, nel secondo Sant’Ermagora, primo vescovo di Aquileia che elegge suo successore San Fortunato.

Tutt’intorno sulle pareti i ritratti dei primi vescovi e dei patriarchi e, dopo il 1751 (data della soppressione del Patriarcato), degli Arcivescovi della diocesi di Udine. In tutto 116 ritratti, che offrono l’opportunità di ripercorrere i duemila anni di storia della chiesa aquileiese e udinese.

Sopra il trono è dipinto lo stemma dell’arcivescovo Pietro Zamburlini (1897-1909).

Approfondimento

La sala era stata inizialmente affrescata nel 1601 con ritratti eseguiti forse dal pittore fiammingo Ludovico Toeput, detto il Pozzoserrato (Anversa 1550 ca – Treviso 1603), che il Barbaro aveva nominato nel 1597 suo “famigliare”, con un decreto molto elogiativo delle sue virtù religiose e pittoriche. Questa prima serie di ritratti fu distrutti nel 1729. 

La serie che oggi arricchisce la Sala è stata realizzata dopo che nel 1729 il patriarca Dionisio Dolfin fece “raschiare” i ritratti di inizio Seicento, li fece ridipingere con nuove iscrizioni (dettate dal canonico Angelo Bernardino Serio).

Nel 1729 era attivo nel palazzo Giambattista Tiepolo, a cui vanno attribuiti alcuni ritratti, ad esempio quelli dei vescovi Agapito, Benedetto, Augustino, Adelfo e Marcellino posti sopra la porta di accesso alla cappella.

Quelli successivi sono di artisti diversi, di cui per lo più non si conosce il nome.

Nella notte del 17 dicembre 1855 parte del soffitto della Sala crollò. L’arcivescovo Luigi Trevisanato diede l’incarico di riaffrescarlo al pittore di Osoppo Domenico Fabris (1814-1901), il quale tra 1857 e 1859 vi dipinse La missione di sant’Ermacora.

Approfondimento

Entro un’architettura di stile neoclassico, al sommo di una gradinata, san Marco presenta sant’Ermacora, in veste bianca, a san Pietro che stringe in mano le chiavi del regno dei cieli. In alto, fra angeli e serti fioriti, si libra la figura della Carità. 

La composizione, pur oleografica e fredda, ottenne consensi per la scrupolosa adesione alla cultura storicista romana. 


La Cappella palatina

Nella sala dei Ritratti si apre la Cappella palatina: nell’elegante altare è collocato un dipinto raffigurante la Vergine con Bambino, opera di Jacopo Palma il Giovane (1544–1628), sopra le porte che immettono alla minuscola sacrestia, due piccoli tondi con Sant’Antonio da Padova e San Carlo Borromeo si considerano eseguiti da Giambattista Tiepolo, intorno al 1732-1733.

Sul soffitto si trovano tre tele del pittore veneziano Nicolò Bambini (post 1711): al centro, entro una cornice mistilinea in stucco, la Vergine assunta con i santi Ermacora e Fortunato, ai lati, Angeli e cherubini in volo.

La Galleria del Tiepolo

Le storie dell’Antico Testamento non si susseguono in ordine cronologico: la scena centrale, la più ricca di dettagli e citazioni, è infatti quella che conclude il racconto biblico e l’interpretazione iconografica.

Prima scena: Abramo accoglie gli angeli nel querceto di Mamre. I tre angeli gli annunciano che, seppure centenario, avrà un figlio dalla vecchia mogli Sara. Inginocchiato, raccolto in preghiera, Abramo non esita a credere e ad accettare la volontà di Dio.

Seconda scena (in fondo alla parete): Sara rimproverata dall’Angelo. La vecchia moglie di Abramo è colta nell’atto di sorridere per aver udito, origliando da dietro la porta, la promessa di generare un figlio. Bella la figura della vecchia, in un abito nobiliare, cui si contrappone quella dell’angelo dalla veste ariosa e damascata.

Terza scena (in fondo, sul soffitto): L’Angelo conforta l’egizia Agar. Alla schiava Agar scacciata da Abramo con il figlio Ismaele, prostrata e affamata nel deserto, l’Angelo di Dio indica il cammino: «prendi il fanciullo … io farò di lui una grande nazione».

Quarta scena (sul soffitto): Il Sacrificio di Isacco. A sinistra Abramo, obbediente a Dio, è pronto ad immolare, sull’ara di pietra, il suo figlio prediletto Isacco, ma dall’alto l’Angelo stende la mano per fermare il vecchio patriarca. Sulla destra, un ariete assiste alla scena brucando le foglie dei cespugli.

Quinta scena (sul soffitto): Il sogno di Giacobbe. Anche Giacobbe è pronto a credere in Dio che gli promette in sogno una discendenza numerosa. La figura del giovane, dalle vesti coloratissime, è posta in orizzontale sulla scena, in contrapposizione con l’andamento verticale della scala che scolora verso l’alto, su cui salgono e scendono figure diafane di angeli, tracciate con colori liquidi e trasparenti.

Sesta scena (sulla parete al centro): Rachele nasconde gli idoli. Nella quadratura centrale di Mengozzi Colonna ha creato quasi un impianto teatrale, con un arco di proscenio con festoni abbassati di foglie dorate e fiori. Il racconto è affollato: al centro il vecchio Labano incontra, sulla montagna di Galaad, la figlia Rachele (forse ritratto di Cecilia Guardi, moglie di Tiepolo), che nasconde sotto il basto i “tarafin” rubati al padre, cioè le statuette di divinità familiari simboli del diritto di eredità, ed ha ai suoi piedi il figlio più piccolo, Giueppe. Accanto a Labano Giacobbe (forse autoritratto del pittore), che sta ritornando ricco dalla terra di Canaan con la moglie Rachele, l’intera famiglia, il bestiame e tutti gli averi, osserva serio il concitato dialogo tra padre e figlia.

A destra, sullo sfondo della tenda preparata per la notte, c’è il gruppo numeroso con al centro Lia, con l’anfora, prima moglie di Giacobbe, la sua schiava Zilpa, un fratello di Giacobbe e tutt’intorno alcuni dei figli da cui nasceranno le dodici tribù d’Israele. Manca soltanto Beniamino, che nascerà nella terra di Canaan.

A sinistra, sullo sfondo di un paesaggio di dolci colline, si staglia la bella figura di Bila, schiava di Rachele, colta di spalle, in leggera torsione, con Dan e Neftali e Giuda, che diverrà capostipite della tribù più ricca e potente, cui Giacobbe trasmetterà l’eredità.

Settima scena, a destra dell’episodio centrale: Giacobbe lotta con l’angelo. Sulla riva del fiume Jabbok, appena attraversato con le due mogli e gli undici figli, Giacobbe rimane solo a lottare con uno sconosciuto fino al sorgere dell’alba. Gli arride la vittoria e l’Angelo (perché tale era lo sconosciuto) gli dice «ti chiamerai Israele». È la consacrazione di Giacobbe a capostipite del nuovo popolo voluto da Dio.

Ottava scena, a sinistra della centrale: Riconciliazione tra Esaù e Giacobbe. I due fratelli si stringono in un abbraccio di pacificazione: dopo quello divino è il pubblico riconoscimento di Giacobbe, capostipite del nuovo popolo.

Le due scene, inserite entro cornici in finto stucco, sono trattate in monocromo violetto lumeggiato di bianco su fondo oro, di una preziosità da cammeo che esalta il colore dell’intera parete.

Eleganti, isolate entro nicchie, trattate a monocromo, simili a statue, sono le sei Profetesse che hanno saputo vedere prima degli altri il futuro del genere umano. Quattro sono poste fra le finestre (Anna, figlia di Fanuele, Elisabetta, moglie di Zaccaria e madre di Giovanni Battista, Anna, madre di Samuele, Holda o Culda, moglie di Sallum), due sulla parete principale (Marta, sorella di Aronne e Debora).

Di fronte all’episodio centrale si trova il Ritratto del patriarca Dionisio Dolfin, a monocromo su fondo oro.

Approfondimento

Questi affreschi rappresentano un momento cruciale nell’iter pittorico di Giambattista Tiepolo: la tavolozza dell’artista si è schiarita grazie alla luce, vera protagonista, solo veicolo per il colore. 

Gli azzurri sono imbevuti di bianco, le ocre sono piene di sole, i verdi sono pallidi, i grigi sfumati. Solo sul soffitto, per obbedire alla necessità di supplire alla scarsa luce naturale, il cromatismo è più carico. Il disegno è rapido, ma i contorni svaniscono nell’atmosfera. 


La Sala rossa

Tra il 1727 e il 1729 Giambattista Tiepolo affrescò la Sala rossa, un’aula destinata probabilmente alle sedute solenni del Tribunale del Foro Ecclesiastico (riconosciuto anche in sede civile fino alla Rivoluzione Francese). È l’ultimo lavoro eseguito dall’artista nel palazzo, raffigura Il giudizio di Salomone, ed è orgogliosamente firmato “GIO. BATTA. TIEPOLO F.”.

Il soggetto biblico proposto dal patriarca al giovane Tiepolo ben si adatta al luogo e conclude felicemente il programma iconografico prefissato: Dio concede a Israele, con il re Salomone, il promesso regno di giustizia e di pace.

Entro una cornice mistilinea in stucco bianco il Tiepolo dipinge una gradinata fortemente scorciata affollata di figure, arditamente colte di sott’in su per accentuare il senso di profondità spaziale.

A destra, assiso sul trono, Salomone pronuncia la sua sentenza. Intorno la corte: consiglieri, cortigiani, fanciulli, il nano buffone, l’elegante cane levriero.

A sinistra il gruppo formato dal boia, nell’atto di tagliare in due il bambino oggetto della contesa tra le due donne, dalla vera madre che alza il braccio per fermare la crudele esecuzione e dalla falsa madre orrenda nel sembiante; in basso, sul gradino, il corpicino dell’altro bambino morto.

Impaginazione scenografica, abbondanza di elementi decorativi (la sontuosa parata di broccati e di bandiere, il nano, l’elegante cane), l’opulenza dei colori caldi ed intensi, la resa teatrale dell’evento rendono l’affresco quanto mai suggestivo.

Agli angoli del soffitto, entro capricciose cornici il Tiepolo dipinge le figure die quattro profeti maggiori: Isaia, con l’angelo intento a purificargli le labbra col fuoco; Geremia, con il libro chiuso delle “lamentazioni” mentre piange su Gerusalemme ridotta in schiavitù; Ezechiele, che rivolge lo sguardo alla mano che gli porge il rotolo da mangiare per istruirlo nella sua missione; e Daniele, seduto sopra una roccia, con i leoni ormai ammansiti ai suoi piedi.

Da notare i brevi cenni paesaggistici: i cieli trasparenti, gli alberi, anzi i tronchi da cui si dipartono i rami sventagliati. Le figure sono trattate con un’audace visione di sott’in su, con libera prospettiva, segno nervoso, grande sensibilità coloristica.

cornici mistilinee inserisce quattro episodi tratti dall’Antico Testamento, legati al tema della giustizia divina che difende i deboli e gli oppressi, aventi le donne per protagoniste: Giaele uccide Sisara, Giuditta e Oloferne, Giuseppe e la moglie di Putifar, Susanna e i vecchioni.

Gli affreschi nella Sala azzurra

All’epoca del patriarca Marino Grimani va probabilmente ricondotta la decorazione a “grottesche”, che per antica tradizione è attribuita a Giovanni Nani da Udine, detto il Ricamatore (1487–1561), sulla volta dell’attuale Sala azzurra, unica stanza del piano nobile non interessata dalla riforma settecentesca del palazzo.

Gli elementi ornamentali del soffitto formano un vero ricamo: racemi stilizzati si intrecciano con festoni e nastri filiformi a sostenere cespi di fiori e frutta, uccellini e leggiadre farfalle. E poi animali di ogni genere – gru, gufi, giraffe, scimmie … – il cui reale significato simbolico a noi ancora sfugge, studiati e rappresentati con l’acume e la precisione del naturalista, ma vivificati dalla fantasia di un vero artista. Animali spesso rari a vedersi in quei tempi a Udine, tanto da destare viva curiosità.

Secondo alcuni studiosi, Giovanni fu affiancato in quest’opera da altri pittori, forse il figlio Micillo o il poco noto Donato Bagatini, suo aiuto anche a Roma. Certo è che gli affreschi sono stati realizzati con tecnica sopraffina, come evidenziato da recenti restauri.

Per una loro corretta valutazione si deve tener conto anche del fatto che il 17 agosto 1917 lo spostamento d’aria provocato dallo scoppio di una polveriera a Udine fece crollare l’intonaco: i frammenti furono ricomposti con rara pazienza e perizia da Pietro Zeni, lo stesso artista-restauratore cui spettò di ricomporre la Madonna del Sansovino dopo la caduta del campanile di San Marco a Venezia.

Approfondimento

Tra le grottesche, spiccano cinque scene con episodi evangelici, dipinte entro classiche partiture architettoniche ed eseguite da ignoto pittore: Gesù che predica sul lago di Cafarnao, Gesù invita gli apostoli a predicare, Gesù loda la fede del centurione romano e Gesù dà agli apostoli il potere di sciogliere e di legare, inoltre al centro del soffitto Gesù risorto che dà a Pietro il primato pastorale. 

La Biblioteca

La Biblioteca patriarcale, voluta dal patriarca a «pubblico e perpetuo commodo della sua Diocesi», come scrisse all’epoca il letterato Nicolò Madrisio, fu fondata nel 1708 e inaugurata nell’agosto del 1711.

Ai primi studiosi che la frequentarono apparve veramente splendida per pitture, stucchi ed imponenti scaffali in legno, nonché provvista di rare e costosissime opere acquistate personalmente (e a sue spese) dal patriarca stesso; un imponente patrimonio librario che i patriarchi e vescovi seguenti provvidero ad incrementare.

La Biblioteca consiste in una vasta stanza rettangolare interamente ricoperta da scaffalature il legno, su due piani, con ballatoio retto da venti mensoloni poggianti su protome dai volti animaleschi e deformati, mentre sulla sovrastante cornice quattordici putti, in legno scolpito, reggono i simboli delle arti, delle scienze e della fede: agli angoli sono scolpiti, a figura intera, i quattro Dottori della Chiesa occidentale (Ambrogio, Girolamo, Agostino e Gregorio Magno).

Il soffitto è occupato da un grande “telero” alla veneziana, realizzato nel 1711 dal pittore veneziano Nicolò Bambini (a olio su tela), che rappresenta il Trionfo della Sapienza divina.

Approfondimento

Nel “telero” di Nicolò Bambini al centro della composizione è posta la Sapienza, ritratta come una classica Minerva, con il libro delle profezie chiuso dai sette sigilli, sormontato dall’Agnello pasquale nella mano sinistra e li scudo illuminato dalla Colomba dello Spirito Santo nella destra. Il cimiero che le copre il capo è sormontato da un gallo, emblema della Ragione

Nel cielo i simboli dei quattro Evangelisti. Intorno sono raffigurate le arti e le scienze: la Filosofia, l’Astronomia, la Storia, la Geografia, l’Arte, la Medicina, la Nautica e la Geometria. Un angelo, simbolo dell’immortalità del Sapere, mette in fuga il Tempo

Un preciso intento informatore della committenza sottende la decorazione della Biblioteca: celebrare la Sapienza divina nel suo trionfare sulle deformi manifestazioni dell’Ignoranza. A tale scopo concorrono le singole parti, dagli intagli e sculture lignee alle iconografie allegoriche dei dipinti – essi pure opera di Nicolò Bambini – che fungono da sovrapporta e raffigurano il Trionfo della Dottrina sull’Ignoranza, il Trionfo della Fede sull’Idolatria, il Trionfo dell’Ortodossia cattolica sull’Eresia e il Trionfo della Verità sulla Bugia. Lo stesso intento comunicano le protomi umane e bestiali, delle sculture che decorano le mensole del ballatoio.

Nell parte alta della Biblioteca, entro eleganti cornici lignee dorate, i ritratti dei prelati del casato Dolfin e i busti dei quattro Evangelisti, dipinto dovuti a Nicolò Bambini.

Il patrimonio della Biblioteca è costituito da libri rari, prime edizioni, 150 incunaboli, 800 manoscritti, ma anche codici ebraici e greci. Inizialmente i libri erano 7000 ora ammontano a circa diecimila.

Approfondimento

Dalla Biblioteca si accede all’esterno mediante una elegante e suggestiva “scala a bovolo” (cioè a chiocciola), voluta nel 1708 dal patriarca per creare un accesso indipendente alla biblioteca allora in fase di realizzazione. Opera di Domenico Rossi, la scala si conclude in un cupolino decorato con un affresco raffigurante il Divino legislatore in una gloria di angeli, eseguito nel 1709 dal pittore francese Louis Dorigny (1654-1742), che in quel lasso di tempo eseguì affreschi anche nel duomo di Udine e in villa Manin a Passariano.