Il duomo di Tolmezzo

Il duomo di San Martino

Il duomo di Tolmezzo

Il duomo di Tolmezzo, intitolato a san Martino, è un edificio di considerevoli dimensioni, che mostra nelle sue linee esterne, e soprattutto nello splendido interno, i caratteri dell’arte del Settecento, un barocco di tipologia veneto-friulana sobrio e misurato ma non privo di qualche notazione festosa. Si presenta come frutto della ricostruzione avvenuta, su progetto di Domenico Schiavi, poco dopo la metà del XVIII secolo e dei successivi interventi risalenti all’Otto e al Novecento.

Le origini

Già alla fine del XII secolo Tolmezzo possedeva una chiesa dedicata a San Martino, come può attestare documento del 1199, con il quale Papa Innocenzo III concedeva ai monaci di Moggio di edificare una chiesa su terreni di proprietà del monastero, chiesa probabilmente fornita di cimitero e di fonte battesimale. All’inizio semplice cappella, la chiesa dovette ingrandirsi soprattutto dopo che Tolmezzo, da luogo abitato da poche persone era diventata città, grazie al patriarca Gregorio di Montelongo. L’aspetto del primitivo edificio, in totale mancanza di documentazione, rimane però sconosciuto.

Il duomo nel Cinque e Seicento

Alla fine del secolo XV la chiesa di San Martino si presentava come una chiesetta con più ingressi, preceduta da un portichetto davanti alla porta maggiore, con un occhio in facciata. L’interno doveva essere di una certa dimensione: un primo ampiamento si ebbe nel 1478, quando a maestro Egidio muratore fu affidato l’incarico di costruire la “chua”, cioè la cappella di San Giacomo a fianco del presbiterio, nel quale era collocato l’altare dedicato a san Martino, poi nel 1512 quando, nel ricordo della peste che era seguita al disastroso terremoto dell’anno precedente causando centinaia di morti anche in Carnia, si deliberò di erigere un altare in onore dei santi Sebastiano e Rocco.

Approfondimento

In un documento conservato nell’archivio parrocchiale si legge la motivazione che condusse all’erezione, nel 1512, dell’altare dedicato ai santi Sebastiano e Rocco, affinché essi intercedessero «presso la Maestà di Dio Onnipotente affinché si degni di liberarli dall’epidemia e dal contagioso languore, e li conservi incolumi, né siano toccati in futuro dalle cose tremende … come l’anno appena trascorso 1511 durante il quale il morbo della epidemia colpì quasi tutte le città, fortezze e castelli e tanti villaggi della Patria del Friuli». 

La chiesa possedeva un organo (probabilmente positivo), che richiedeva frequenti interventi di restauro e messe a punto. All’inizio del Seicento, l’edificio si presentava con una struttura solida e articolata, intonacata all’esterno ed imbiancata all’interno. Consisteva in un’unica navata. Il presbiterio aveva copertura a volta; in corrispondenza delle porte erano presenti tre pile per l’acqua santa. La semplice facciata era ritmata da tre porte, la centrale di maggiore ampiezza, più piccole le laterali. La torre campanaria, adiacente alla chiesa, era intonacata e culminava con una croce di ferro. Sull’altare maggiore, in pietra, dedicato a san Martino, era stata collocata un’ancona lignea con figure intagliate e dorate (tra esse quelle del santo titolare e di Cristo crocifisso), simile a quelle già esistenti nella pieve di San Floriano a Illegio o di San Pietro a Zuglio, eseguite da Domenico da Tolmezzo nell’ultimo quarto del secolo XV.

Approfondimento

Oltre all’altare maggiore intitolato a san Martino, nella chiesa erano presenti altri altari dedicati a san Giacomo (con un’ancona contenente l’immagine della Trinità), a san Nicolò (con un’antica ancona con varie immagini, tra cui quella di san Nicolò), ai santi Rocco e Sebastiano (eretto dopo la peste del 1512, conteneva un’ancona in legno con le figure dei santi titolari e di un Cristo crocifisso), a san Giuseppe (con un’ancona che antichi documenti definiscono «molto bella e ben ornata»), alla Beata Vergine (anch’esso fornito di un’ancona lignea). Le molte ancone lignee che decoravano la chiesa nel Cinque e Seicento, purtroppo, andate perdute, che probabilmente riflettevano i modi dei maggiori artisti carnici del tempo: Domenico da Tolmezzo, Giovanni Martini, Antonio Tironi e Giovanni Antonio Agostini, anche se nessun documento noto testimonia le loro opera per la chiesa di Tolmezzo.

Approfondimento
Nel Settecento Tolmezzo si trovò a vivere uno dei momenti di maggiore splendore, grazie soprattutto all’intraprendenza del grande imprenditore Jacopo Linussio, che aveva fondato una fabbrica di tessuti in grado di dar lavoro a trentamila operai, tra tessitori, caricatori di spole, filatrici (molte delle quali, lavorando in casa, integravano il bilancio familiare). Le merci, di ottima qualità e competitive nel prezzo, venivano esportate in gran quantità a Venezia e anche fuori dai territori dello Stato, ciò che – oltre tutto – accresceva a dismisura l’importanza di una contrada in precedenza quasi sconosciuta.
Munifico mecenate, il Linussio volle per sé una dimora di prestigio poco fuori l’antica cerchia muraria, affidandone nel 1738 la costruzione al giovane architetto tolmezzino Domenico Schiavi e chiamando a decorare il vasto salone il pittore e quadraturista Domenico Fossati.

Per il duomo Linussio sostenne dapprima la spesa per la fattura di alcuni dipinti, favorendo in seguito, con sostanziosi contributi, la ricostruzione della chiesa stessa. 

Il nuovo duomo del Settecento

Nel Settecento, le esigenze legate all’accrescimento della popolazione e al nuovo ruolo economico e sociale di Tolmezzo condussero alla ricostruzione del duomo. In un primo momento si pensò di modificare e ampliare l’edificio esistente, ma nel 1750, dopo lunghe discussioni, si optò per una soluzione drastica: demolire completamente la chiesa ed edificarne una nuova.

La demolizione ebbe inizio nel 1752 e la funzione di parrocchiale venne per qualche tempo assunta dalla vicina chiesa di Santa Maria di Centa.

Il compito di progettare il nuovo edificio fu affidato all’architetto Domenico Schiavi.

Approfondimento

Domenico Schiavi, membro di una numerosa e prolifica famiglia di architetti, pittori, stuccatori che molto diedero all’arte del Friuli e della Carnia in centocinquant’anni almeno di attività. Domenico, nato nel 1718, quando a 34 anni progetta il nuovo duomo tolmezzino non aveva avuto modo di dare numerose prove di sé, ma godeva dell’importante protezione di Jacopo Linussio e della considerazione che gli derivava dall’aver frequentato lo studio del veneziano Giorgio Massari, architetto di grande fama per le prestigiose opere realizzate, tra le quali numerose anche in Udine: opere particolarmente apprezzate in Friuli, in quanto improntate ad essenzialità e sobrietà espressiva, prive di contorsionismi barocchi ed estrosità rococò. Ed è proprio a Massari, a Venezia, che i committenti – non soddisfatti del primo progetto con pianta a tre navate – mandano lo Schiavi per aver conferma della bontà del secondo progetto proposto, quello con l’interno della chiesa a navata unica. 

L’edificio ideato da Domenico prevedeva una facciata mutuata da quella di Sant’Antonio abate di Udine, ideata da Giorgio Massari: una snella facciata di gusto “pittorico”, ritmata nel senso dell’altezza da quattro semicolonne, con due nicchie contenenti statue, un importante portale con semilunetta e lapide al di sopra, frontone con motivo a dentelli, con un “occhio” ottagonale al centro, sormontato da tre statue. Tuttavia, probabilmente per mancanza di fondi, il progetto non fu realizzato e la facciata rimase spoglia e priva di qualsivoglia motivo architettonico, salvo il portale, fino all’inizio del XX secolo. Infatti, anni Trenta del Novecento venne indetto un concorso per il completamento della facciata, vinto dall’architetto Filippo Filipuzzi, il cui progetto riprendeva in toto quello dello Schiavi, con la sola eliminazione delle nicchie e delle statue a coronamento del timpano. Al termine dei lavori, il 25 ottobre 1931 il duomo fu riaperto al culto.

Approfondimento

All’esterno dell’abside attuale sono murati due bassorilievi in pietra che facevano parte del primitivo edificio sacro. Il primo raffigura un santo vescovo, probabilmente San Martino, a mezza figura. Databile al XIII-XIV secolo, visto frontalmente assiso sul trono con il capo cinto dall’aureola, regge il libro con la mano sinistra e alza la destra con le dita atteggiate nel tipico gesto di benedizione. Si può considerare prodotto dalla medesima “scuola” artistica, cui appartiene la Crocifissione nella lunetta del portale di facciata del duomo di Venzone, anche se rispetto a quella evidenzia più marcati caratteri popolareschi.

Il secondo rilievo, che raffigura il Pantokrator (Cristo benedicente), è di più modesta proporzione ed è inserto in un tondo della cornice a dentelli: probabilmente era la chiave di volta di una cappella. È opera di un modesto scalpellino del XIV secolo.

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All'esterno della sacrestia è murato il monumento a Tobia Flekhamer, risalente al 1625 circa: nella parte inferiore una lastra con la scritta voluta da Bolfardo Flekhamer in ricordo delm figlio Tobia, giovane salisburghese morto a 24 anni a Tolmezzo il 28 settembre 1621; nella parte superiore un bassorilievo con due telamoni ai lati e al centro la figura di Tobia inginocchiato e di san Martino in piedi ai lati del Crocifisso. La scultura, che rientra nella tradizione scultorea nordica, in origine si trovava probabilmente nel vecchio cimitero che circondava la chiesa. 

L'interno del duomo

L’interno del duomo si presenta ad unica navata, con presbiterio sopraelevato in cui si trovano spazio l’altar maggiore al centro e – addossati alle pareti – gli stalli lignei e gli organi. L’alto soffitto si conclude con una cupola affrescata. Nella navata, sei nicchioni contenenti altari gradevolmente ritmano, tre per parte, le pareti laterali, mosse inoltre dai cornicioni (di cui l’inferiore dentellato) che corrono sotto le finestre, dai riquadri a stucco entro cui sono collocate tele raffiguranti apostoli e santi.

Approfondimento

Il duomo di Tolmezzo è un edificio culturalmente aggiornato nella sua sobrietà, ma privo di azzardate novità che fa ben capire perché l’opera di Domenico Schiavi – che oltre a tutto si accontentava di compensi modesti – sia stata tanto richiesta in Carnia e Cadore e nel Friuli e perché la “bottega Schiavi” abbia ricevuto tante commissioni di lavoro.

Anche a Tolmezzo, come già era avvenuto nelle chiese parrocchiali di Lorenzago (1755-1758) e San Vito di Cadore (1754-1759) si ripropone la collaborazione tra i fratelli Schiavi, Domenico architetto e Antonio pittore, al quale nel 1761 è affidata la decorazione a fresco della chiesa. Antonio dipinge nel presbiterio la Trinità in gloria nella cupola, le Virtù teologali (Fede, Speranza e Carità), e l’Allegoria dell’Eternità nei finti pennacchi e, in monocromo, il Sacrificio di Isacco nel lunettone; nel soffitto della navata tre riquadri con scene sacre: in quello mediano, e maggiore, la Vergine Maria e san Martino in gloria, in quelle minori le Tentazioni di Cristo e Gesù e la Samaritana al pozzo. Per una corretta valutazione degli affreschi, si deve tener presente in primo luogo che i colori acquistati a Venezia risultano di scarsa qualità (ciò che provocò una ferma protesta del pittore), poi che vennero pesantemente restaurati da Giacomo Monai di Nimis dopo il terremoto del 1928 ed infine che parte di essi (soprattutto il riquadro centrale) è andata perduta con il terremoto che ha colpito la città nel 1976.

 Tutto ciò premesso, va comunque detto che Antonio Schiavi è pittore di gusto provinciale, che non sa “tenere” lo spazio, ma che risulta piacevole per certe arditezze prospettiche nella forzata visione di sott’in su e per qualche buon particolare nell’affollata e turbinosa rappresentazione della Trinità in gloria, in cui sono evidenti i prestiti culturali da Francesco Zugno. Corrette le figure delle Virtù, buono l’effetto chiaroscurale nella grisaille con il Sacrificio di Isacco, mentre le scene dei riquadri minori del soffitto della navata si caratterizzano per la notevole semplificazione dei modelli, soprattutto nel paesaggio, nelle figure snervate e nel cromatismo privo di luminescenze. 

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Approfondimento

L’attuale acquasantiera sostituisce una precedente del 1516, in pietra calcare bianca, che ha subito danni consistenti a causa del terremoto. Elegantissima, con esuberante decorazione (girali con fiori nel piedistallo quadrato, varie modanature nel fusto rotondeggiante con motivi a squame nella parte superiore e di nuovo graziosi girali di fiori in bassorilievo all’esterno della vasca e motivi di conchiglia all’interno), è stata variamente attribuita – per motivi stilistici – a Bernardino da Bissone o a Carlo da Carona. Il ritrovamento di alcuni pagamenti effettuati a Giovanni Antonio da Carona detto il Pilacorte per la fattura del manufatto, indicano in quest’ultimo lapicida lo scultore dell’acquasantiera. 

I dipinti di Nicola Grassi

Nella facciata interna del duomo, in alto, entro un riquadro a stucco, è collocato un dipinto raffigurante San Luca.

È uno dei diciassette dipinti commissionati intorno al 1731-1732 da Jacopo (Giacomo) Linussio al pittore Nicola Grassi (1682-1748) e poi donati alla chiesa. Quattordici di essi, raffiguranti il Redentore, Apostoli e Santi sono esposti in chiesa, due in sacrestia (Crocifissione e la Maddalena). Di tale serie fa parte anche il Ritratto di Jacopo Linussio di Nicola Grassi (che alcuni studiosi vogliono eseguito qualche anno più tardi, nel 1735-1738 o nel 1741), attualmente depositato nel Museo Carnico delle Arti e Tradizioni Popolari di Tolmezzo.

 

I quattordici dipinti di soggetto sacro, nei quali compare sempre il monogramma di Linussio, due G e due L intrecciate insieme e affrontate, costituiscono uno dei cicli pittorici più importanti dell’artista carnico, che giovanissimo si era stabilito a Venezia (già nel 1712 risulta iscritto alla “fraglia” dei pittori della città lagunare), e risultano fondamentali per apprezzare fino in fondo l’attività di ritrattista del pittore.

Considerata l’eccezionale sequenza di variazioni psicologiche, la diversità degli atteggiamenti e delle positure, accentuata da un cromatismo sempre individualizzato, si può pensare che le figure degli Apostoli e Santi del duomo tolmezzino più che raffigurazione di modelli stereotipi siano anch’essi dei veri e propri ritratti colti dal vero. È anche possibile che alla figura di San Luca evangelista il Grassi abbia dato le proprie sembianze.

 

La parete destra

Iniziando la visita dalla parete di destra dell’aula, dopo il dipinto del Grassi con San Marco si incontra l’altare di San Luigi, di altarista ignoto del XVIII secolo, caratterizzato da quattro colonne con capitello corinzio e rivestimento marmoreo a listelli e da due angeli addossati al fastigio. Contiene una pala raffigurante Maria Vergine col Bambino, sant’Emidio vescovo con l’Angelo Custode e san Luigi Gonzaga, di Pietro Antonio Novelli.

Le pale del Novelli

Novelli ha eseguito tre dipinti per il duomo di Tolmezzo, tutte opere di buona qualità artistica per la corretta e gradevole disposizione delle figure e per l’interpretazione delle scene, ora improntate a soffuse dolcezze e liriche raffigurazioni, ora dominate da violente e drammatiche situazioni, in un tonalismo tutto veneto che vive nell’armonia dei colori.

La pala di San Luigi Gonzaga, risale al 1790, come risulta dalla data apposta da Novelli in basso a destra, ed è la più riuscita sul piano compositivo, per la buona impaginazione e la corretta disposizione dei personaggi, si fa apprezzare per i colori (si vedano gli splendidi impasti bianco su bianco della veste del santo) e per i particolari (il libro, la corona, i gigli appoggiati sugli scalini). La presenza di sant’Emidio, il protettore dai terremoti, fa comprendere che si tratta di un dipinto ex-voto, “regalato” a se stesso e alla comunità tolmezzina da Giovanni Marchi, che pagò l’opera, oltre all’altare, dopo il violento terremoto che aveva colpito Tolmezzo nel 1788.

Il fonte battesimale

Il fonte battesimale è stato eseguito nel 1516 da Carlo da Carona in forma semplice, priva di decorazioni e orpelli ma elegante nelle proporzioni, analoga a quella del fonte battesimale realizzato nel 1528 per la basilica di Aquileia. Al di sopra un dipinto raffigurante San Luigi, di ignoto pittore settecentesco, e l’apostolo Filippo di Nicola Grassi.

L'altare di Sant'Ilario

Il secondo altare destra è dedicato al patrono della Carnia, sant’Ilario. Risale al 1791, è opera di Francesco Aloi, altarista di Gemona del Friuli, ed è del tutto simile all’altare del Rosario che gli sta di fronte e che è stato eseguito da Giovanni Battista Bettini nel 1767. In pietra bianca, lineare nella fattura, con due gradevoli bassorilievi nei dadi laterali inferiori raffiguranti la Deposizione di sant’Ilario e Sant’Ilario portato in cielo, contiene all’interno della mensa (realizzata nel 1899 dai fratelli Filipponi di Udine) il corpo di sant’Ilario in stucco dorato e dipinto.

 

La pala d’altare, dipinta nel 1791 da Pietro Antonio Novelli, raffigura la Decollazione di sant’Ilario: il pittore coglie il momento di maggiore tensione, con il santo inginocchiato mentre il carnefice sta per calare su di lui la spada e un sacerdote tenta invano di indurlo ad adorare un Idolo. Sullo sfondo della scena compare il tiranno Giuliano Apostata a cavallo, al di sopra la Vergine col Bambino si volge pietosa verso due angioletti in volo che recano la corona e la palma del martirio. Scena molto riuscita e ricca particola, firmata e datata a destra “Petrus Antonius Novelli / Venetus pinxit anno 1791”.

La nicchia

In una nicchia è collocato un Crocifisso ligneo cinquecentesco; al di sopra, un dipinto di Nicola Grassi raffigurante San Giacomo minore dominato dalle tonalità lattee del manto e dallo sguardo enigmatico che pare rivolgersi all’osservatore.

L'altare delle Anime

Il terzo altare della parete destra è detto altare delle Anime: prezioso, elegante, colorato (le colonne e le specchiature sono rivestite di marmo screziato), ha un fastoso frontone a linea spezzata con statuine di angioletti e di cherubini alati. Risale alla prima metà del XVIII secolo e contiene all’interno una bella pala raffigurante la Madonna con Bambino e santi alla presenza delle anime purganti, attribuita a Gaspare Diziani e datata al 1735-1740.

 

Dipinto raffinato nei tanti particolari, che evidenzia la indubbia abilità del pittore bellunese, virtuoso colorista al pari del conterraneo Sebastiano Ricci dal quale apprese l’amore per pennellate corpose, veloci ed intrise di luce: qualità che si riscontrano anche in questo dipinto, correttamente impaginato, controllato nel colore e nella disposizione dei personaggi e nuovo nell’invenzione e nella trattazione di un tema tanto caro alla pittura barocca. Nella parte superiore, tra spesse nubi dalle quali emergono figure angeliche, la Madonna con Bambino, in basso a sinistra le figure dei santi Francesco, Antonio da Padova e Girolamo, ben riconoscibili dai personali attributi (il crocifisso, il giglio, il leone, il cappello cardinalizio e il teschio), angeli in atteggiamento supplice e due purganti tra fiamme nella parte destra.

 

Gli altri dipinti

Più avanti due dipinti di Nicola Grassi, Sant’Andrea, figura che si staglia, esagitata e drammatica, su un fondo blu, e, nella parete esterna destra del presbiterio, un assorto Sant’Ilario, protettore della Carnia, con vistosa veste rossa e lucente armatura.

Al di sotto un quadro raffigurante la Visitazione e i santi Giovanni Battista, Nicola da Bari e Bernardino da Siena, già pala dell’altare di San Nicola del precedente edificio, eseguita nel primo decennio del Seicento, probabilmente da Secante Secanti, pittore udinese.

Il presbiterio

Il presbiterio, sopraelevato, accoglie al centro l’altare maggiore, eseguito nel 1762, su commissione della famiglia Linussio, dal portogruarese Giovanni Battista Bettini (1714-1789), corrispondente e in parte socio di Giorgio Massari e Domenico Rossi, diffusore in Friuli e nella Terraferma dei modi della grande scultura veneta del Settecento, da lui “tradotta” in ritmi provinciali e semplificati, ma non privi di grazia. L’altare, in mamo bianco di Carrara, molto sviluppato in altezza, ha un corpo centrale aggettante con tabernacolo a tempietto dalle belle forme e culmina con un doppio fastigio, reca sul retro la scritta: “D.O.M. / Familiae Linussiae Religionis / monumentum / Anno D.ni MDCCLXII”.

Contiene una pala di Francesco Fontebasso, eseguita intorno al 1762-1764 e raffigurante la Madonna con Bambino e i santi Martino, titolare della chiesa, e Carlo Borromeo, che era stato Abate commendatario di Moggio, da cui in origine dipendeva la chiesa di San Martino di Tolmezzo.

Approfondimento

La pala di Tolmezzo costituisce un importante documento della tarda attività del maestro: i piacevoli impasti cromatici mutuati da Sebastiano Ricci e Giambattista Tiepolo, evidenti soprattutto nella veste della monumentale figura di san Martino, la felice ideazione con il putto in basso che sembra il perno intorno al quale ruota la composizione, la scenografica disposizione delle figure , l’attenzione ai particolari e l’impaginazione serrata e senza respiro motivano i meriti e nello stesso tempo denunciano i limiti del pittore. Il quale, per quanto attiene il contenuto, si rifà alla pala dell’altare del precedente edificio, eseguita da Fulvio Griffoni nel XVI secolo, ed ora in sacrestia.


Dipinti del presbiterio

Alcuni dipinti completano la decorazione del presbiterio: quattro ovali, ai lati dei due organi, raffiguranti rispettivamente i santi Giuseppe, Antonio da Padova, Francesco di Paola e Girolamo vanno assegnati ad un seguace di Nicola Grassi, forse il pittore di Paularo Giovanni Francesco Pellizzotti; fanno invece parte del ciclo di dipinti di Nicola Grassi i santi Giacomo maggiore e Mattia entro riquadri nella parete di fondo.

La decollazione di Odoardo Fialetti

Scesi dal presbiterio, si incontra nella parete di sinistra il dipinto di Nicola Grassi raffigurante Il Redentore benedicente, sotto il quale è collocato un quadro, di ignota provenienza, firmato dal pittore bolognese (ma operante a Venezia) Odoardo Fialetti (1573-1637/1638) con la Decollazione di san Giovanni Battista. Accurata la scenografica disposizione dei personaggi, con le eleganti figure femminili in primo piano destinate ad accentrare l’attenzione e a distoglierla dall’orrore della drammatica esecuzione, gradevole l’invenzione dello spaccato architettonico del palazzo di Erode che si apre sui grandi spazi interni lasciando intravedere uno scorcio del banchetto.

Evidenti risultano le dipendenze stilistiche dal mondo artistico lagunare. Ed anche se manca la forza del chiaroscuro tintorettesco, ugualmente certe stesure cromatiche e vibrazioni luministiche rimandano al maestro veneziano, così come i toni azzurrognoli o la preziosità degli abbigliamenti, in particolare quello della dolce Salomè abbellita da gioielli minuziosamente descritti, ricordano il fare del Veronese.

L'altare di San Pietro

Sulla parete della navata è collocato il dipinto di Nicola Grassi con San Giovanni Battista, figura ariosa sullo sfondo di una parete rocciosa, mentre la croce con il filattere “Ecce agnus Dei” si staglia contro il limpido cielo.

Segue l’altare di San Pietro, del XVIII secolo, eretto con il contributo della famiglia Camucio, gravemente danneggiato da un incendio del 1952. Ora contiene un dipinto che proviene dalla chiesa di San Francesco a Treviso (concesso in deposito), raffigurante il Perdono di Assisi, cioè la visione che ebbe san Francesco quando fu invitato, da Cristo, a chiedere – per intercessione di Maria – qualche grazia per i peccatori: il santo allora chiese l’indulgenza plenaria per chiunque visitasse, con adeguata disposizione d’animo, l’oratorio della Porziuncola. Il dipinto è attribuito a Girolamo Bassano (1566-1621).

 

 

Il pulpito

Dopo l’altare di San Pietro si incontra, addossato ad una porticina, il pulpito (con la Fede, con croce, fiamma e tavole della legge, in bassorilievo ligneo dorato nella specchiatura centrale), e al di sopra il dipinto di Grassi con San Matteo.

L'altare del Rosario

Segue l’altare del Rosario, in marmo bianco di Carrrara, eretto su progetto di Giovanni Battista Bettini nel 1764-1765, a spese di Pietro Antonio Linussio (una iscrizione sul lato destro ricorda il committente: PETRVS. ANTONIVS / LINVSSIVS / ANNAE PARENTIS / OPTIMAE / PIETATI OBSECVTVS / P. / MDCCLXVII). Accoglie una pala dipinta nel 1765 da Pietro Antonio Novelli con la Sacra Famiglia e i santi Domenico e Caterina da Siena: in basso un gruppo di tre angioletti con una cesta di rose.

 

 

 

 

Altri Santi del Grassi

Nella parete accanto due dipinti di Nicola Grassi: San Francesco da Paola (che pur mostrandosi coevo ai dipinti donati da Linussio non fa parte del gruppo, differenziandosi per misure e composizione), ed i Santi Pietro e Paolo che, fatto insolito nella serie dei dipinti del Grassi, è l’unico a comprendere due figure. È anche uno dei più riusciti, per l’ottima disposizione dei personaggi e per la magniloquente spiritualità da essi emanata.

L'altare di San Nicolò

L’Altare di San Nicolò, primo a sinistra entrando, costruito tra il 1836 e il 1838 in marmi policromi (in realtà tarsie marmoree a rivestire le colonne e le specchiature) da Giuseppe Fantoni di Gemona (bassorilievi vegetali nei dadi inferiori e di san Nicola tra racemi nella mensa), accoglie una pala d’altare di Filippo Giuseppini del 1854, raffigurante San Nicolò tra le sante Anna e Lucia.

In quest’opera della maturità, come in altre di soggetto religioso, l’artista udinese (1811-1862), che raggiunse assai presto (nel 1836) uno straordinario successo internazionale con il dipinto Il Diluvio (ora nei Civici Musei di Udine), ma che in seguito non seppe tener dietro alle aspettative, adotta un’impaginazione scenografica e un luminismo di fondo che non riescono tuttavia a riscattare la staticità, il tono didascalico della composizione e la freddezza dell’insieme. La bontà della tecnica è tuttavia misurabile nel monocromo con la Visitazione, che in basso chiude la composizione.

Approfondimento

Il maestoso lampadario dorato a ventiquattro ceri, di 3 metri d’altezza e 2.50 di larghezza, che pende dall’alto soffitto, è stato realizzato nel 1865, con notevole perizia, dal bandaio tolmezzino Gioacchino Janesi. 

La sacrestia

Nell’ampia sacrestia, divisa in più ambienti, sono esposte numerose opere d’arte, alcune delle quali provenienti dal precedente edificio.

Il tabernacolo

Opera lapidea di buona fattura è il tabernacolo eucaristico, dell’inizio del Cinquecento, già collocato nella “chua” costruita nel 1478-1479 da maestro Egidio, trasformato poi in custodia per gli oli santi in epoca controriformistica e relegato infine in sacrestia dopo la riforma settecentesca. Ha l’aspetto di un altarolo, con lesese intagliate che terminano in piccoli capitelli sui quali poggia una elaborata trabeazione – con architrave, fregio e cornice – sostenente una lunetta con cornice riccamente intagliata, volute all’esterno e motivo di conchiglia all’interno. Al sommo, la figura a tutto tondo dell’Eterno Padre benedicente su un basamento decorato con testine di cherubini alati: reca ancora pressoché intatta l’antica coloritura. Esso va assegnato a Bernardino da Bissone.

Approfondimento

 Al pittore Giulio Urbanis di San Daniele del Friuli appartiene il Ritratto di Giovanni Antonio de Flumianis pievano di Tolmezzo, un olio su tela che risale al 1580 circa, ed è uno dei rarissimi esempi di ritrattistica del Cinquecento il Friuli. 

Approfondimento

Alla prima metà del Seicento si data il dipinto del pittore udinese Fulvio Griffoni, già pala dell’altare maggiore, che raffigura la Madonna con Bambino ed i santi Martino vescovo e Carlo Borromeo.

 

Due dipinti del Grassi

Due sono i dipinti di Grassi qui presenti: la Madonna e la Crocifissione. Il primo per dimensioni e concezione è simile ai dipinti esposti in chiesa, il secondo, invece, costituisce un discorso a sé. Composizione di tipo piramidale, coloratissima e dominata da una luce intensa che fa emergere le figure dal piano di fondo, vede le figure stagliarsi nitidamente contro un cielo corrusco dai mille impasti di colore.

Il tesoro

Il tesoro del duomo si compone di una suppellettile sacra in parte donata per la munificenza della famiglia Linussio, in parte acquistata. Prestigiosi prodotti di oreficeria veneziana sono soprattutto un Ostensorio e un Reliquiario.

Il campanile

Lo svettante campanile, di forma quadrata, risale a prima della riforma settecentesca del duomo, ma fu modificato, dalla cella campanaria in su, nel secolo scorso, su progetto di Filippo Filippuzzi: la bifora della cella fu trasformata in trifora e al posto della cupola a bulbo che la sovrastava si costruì una cuspide a imitare il campanile di San Marco di Venezia. Al sommo venne comunque collocato il vecchio angelo segnavento, simile a quello della chiesa di