Il duomo di San Pietro apostolo di Tarcento

Il duomo di San Pietro apostolo di Tarcento

Il duomo di San Pietro apostolo di Tarcento

Le origini e la storia

Le origini del duomo di Tarcento, una delle più antiche chiese del Friuli, si perdono nella notte dei tempi. La sua esistenza è attestata, sul piano documentario, già alla fine del sec. XII, ma gli scavi archeologici condotti qualche anno fa all’interno dell’attuale duomo hanno messo in luce strutture di una costruzione a pianta rettangolare, probabilmente con abside, orientata est-ovest e di discrete dimensioni (circa 10x6 metri di lunghezza), riconducibili al periodo tardo antico (o forse altomedioevale). Nella zona mediana della navata centrale che precede i gradini del presbiterio, è stata valorizzata una parte dell’area archeologica attraverso aperture in vetro che permettono la suggestiva visione di alcune significative strutture delle più antiche costruzioni.

L’edificio antico venne in seguito sottoposto a una serie di rifacimenti che lasciarono inalterati i muri perimetrali: per esigenze di culto, venne tra l’altro inserita una vasca battesimale ad immersione. Distrutta tra il X e l’XI secolo tale costruzione, se ne edificò una nuova in periodo romanico: di maggiori dimensioni (circa 18x7 metri), a navata unica, affiancata sul lato sud da una costruzione quadrangolare, e con abside semicircolare.

L’accresciuto aumento della popolazione motivò nel 1425 una radicale trasformazione dell’edificio secondo un progetto monumentale di ampio respiro che, come ricorda una lapide settecentesca posta sopra il pulpito, portò l’antichissima pieve di Tarcento dedicata a San Pietro ad inglobare completamente quella romanica: fu costruito un edificio sufficientemente ampio, dotato di tre navate, affiancato da un campaniletto con due campane.

Danneggiata dal tempo, alla metà del secolo XVIII si rese necessario un nuovo rifacimento. Tra il 1730 e il 1756 fu innalzato il campanile, poi, dal 1772 al 1792, si riedificò la chiesa dalle fondamenta fino al tetto.

Nuovi lavori di ebbero nel 1832, quando furono aggiungente due sacrestie ai lati del coro; nel 1852 quando si prolungarono verso levante le navate laterali e nel 1903 fu elevata l’abside sormontata da una cupola ottagonale metallica.

Dopo la prima guerra mondiale, la cripta sotto il coro fu trasformata in cappella monumentale a ricordo dei Caduti di Tarcento nella Grande guerra e dedicata a Sant’Antonio da Padova, consacrata nel 1923.

Dopo il terremoto del 1976 il duomo è stato sottoposto ad attento restauro.

 

La facciata

L’attuale aspetto esterno è quello di un edificio dalle severe linee architettoniche che poco concedono alla decorazione: la facciata, a salienti, denuncia la divisione interna in tre navate. La parte centrale, aggettante, sviluppata in senso verticale, risale al XV secolo, è in pietra viva, appena mossa dal portale, da una finestrella rettangolare e da un piccolo occhio che si apre al centro del timpano, sottolineato da una cornicetta marcapiano in pietra.

L'elemento di maggior interesse è il portale gotico, strombato, con un tenue motivo a treccia nella parte più esterna. Meno interessanti le parti laterali, dovute alla riforma ottocentesca dell'edificio.

Approfondimento

Affianca la facciata il robusto campanile settecentesco, di forma quadrata, in pietra viva, diviso da una cornice in due parti, di cui quella superiore contiene un grande orologio. La cella campanaria, più tarda, presenta due fornici per lato.


L'interno

Il fonte battesimale

In una nicchia accanto all’ingresso è collocato il fonte battesimale in pietra rossa, eseguito nel 1576 in forme armoniose dal tagliapietre locale Giacomo Toffoletto, non altrimenti conosciuto ma di certo appartenente ad una famiglia di lapicidi o costruttori, se è vero che nello stesso anno un certo Domenico Toffoletti eseguiva il portone dell'ospedale di San Michele a Gemona.

Il luminoso ed armonioso interno si presenta oggi con un’ampia navata centrale e due laterali di più modesta dimensione, un presbiterio sopraelevato, dominato dal fastoso marmoreo altare maggiore, ai lati del quale si trovano due ampie sacrestie. Altri quattro altari, insieme ad affreschi, dipinti, statue, abbelliscono la chiesa che, nonostante la perdita o la scomparsa di tante opere del lontano passato, ancora conserva significative, importanti testimonianze d'arte.

L'organo

In controfacciata è collocato il grandioso organo liturgico fatto costruire nel 1908 in seguito all’ampliamento della chiesa. Sostituisce il pregevole organo realizzato nel 1761 dai noti organari Pietro Nachini (1694-1769) e Francesco Dacci (1712-post 1776).

Opera di Domenico Malvestio (1835-1918), è il più grande tra quelli costruiti dal noto organaro padovano, che insieme con i figli orientò l'attività verso l'organo sinfonico e le nuove tecniche della trasmissione pneumatico-tubolare. Definito «uno dei migliori strumenti della diocesi», sottoposto nel 1983 ad un delicato ed attento restauro da parte della ditta Gustavo Zanin di Codroipo, presenta un'elegante cantoria ad andamento mosso da parti rientranti e sporgenti, specchiature decorate in monocromo con strumenti musicali o con vivaci angioletti musicanti.

Le acquasantiere

Nella navata centrale trovano posto, accanto all’ingresso, due eleganti acquasantiere in pietra grigia dalle forme semplici ma eleganti, databili al XVIII secolo, all’epoca del rifacimento della chiesa. Hanno sostituito più antichi manufatti, probabilmente rinascimentali, eseguiti dai numerosi tagliapietre che all’epoca abitavano e lavoravano a Tarcento, come attestano numerosi documenti.

 

Le statue di Sant'Antonio e di Santa Rita

Due statue in gesso colorato, databili alla fine dell’Ottocento, sono collocate tra gli intercolunni a sinistra e a destra: raffigurano rispettivamente, secondo tradizionale iconografia, Sant’Antonio da Padova con il Bambino in braccio e Santa Rita da Cascia. In prossimità di quest’ultima, una lapide ricorda che 

Il Crocifisso e il pulpito

Più avanti, a sinistra un bel Crocifisso ligneo del XVIII secolo.  

A destra il bel Pulpito eseguito nel 1857 su disegno del capomastro Girolamo D’Aronco, padre del più celebre Raimondo. Si presenta con un palco retto da mensole ed un poggiolo sagomato con motivi decorativi nelle specchiature minori e in quella maggiore la Fede, in bassorilievo, nella classica immagine di una donna velata che tiene con una mano il calice eucaristico e con l'altra la croce, con ai lati la Carità e la Speranza simboleggiate da due giovani figure femminili sedute, la prima allattante un bambino, l'altra reggente un'ancora. Sopra il baldacchino, la raffigurazione, in scultura, dei simboli degli evangelisti (il leone, l'angelo, l'aquila e il bue) ed un agnello su di un libro; in alto, un grande angelo, in piedi, regge un cartiglio con un'iscrizione sacra. Ignoto il nome dell'intagliatore, che può essere identificato in uno degli artisti gemonesi, probabilmente appartenente alla famiglia di artisti Fantoni che all'epoca collaboravano con il D'Aronco.

La navata centrale

Gli affreschi del soffitto

Il soffitto della navata è impreziosito da importanti affreschi che, previsti già nel 1853, all’epoca della riforma della fabbrica, sono stati eseguiti soltanto una ventina d’anni più tardi.

Il grande affresco condotto dal pittore di Cortina d’Ampezzo Giuseppe Ghedina (1825-1896) con la raffigurazione della Assunzione della Vergine fu inaugurato il 27 settembre 1874.

L’Assunta del Ghedina, mortificata dalla presenza di un secondo riquadro vuoto, si trovò a dialogare, nel vasto soffitto della navata, con i quattro tondi degli sguanci affrescati alla fine del Settecento: si decise di distruggerli e di sostituirli con le immagini degli Evangelisti (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) affidando anche questo lavoro al pittore cortinese, il quale nel San Marco ritrasse sé stesso, servendosi nell'occasione di uno specchio.

Approfondimento

L'Assunzione della Vergine in cielo (per la quale il Ghedina si è ispirato all'Assunta dipinta nel 1846 dal suo maestro Michelangelo Grigoletti per la cattedrale di Esztergon in Ungheria, ed alla straordinaria, grandiosa tavola con l'Assunta dipinta da Tiziano nel 1518 per la chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari di Venezia) riempie uno dei due riquadri predisposti per la pittura (il secondo è rimasto vuoto e presenta tuttora un triste fondo giallastro). 

In alto, sullo sfondo di un cielo striato di nuvole dorate dalle quali occhieggiano vispi cherubini, al centro, Cristo in volo, di scorcio, la testa coronata di spine, affiancato da alate figure angeliche che da una parte reggono una pesante croce, dall'altra una corona a simboleggiare le virtù teologali; nella parte mediana, la Vergine, circondata da nubi popolate di angeli e cherubini che intonano canti, ascende al cielo volgendo lo sguardo verso il divin Figliolo; in basso, gli Apostoli, variamente atteggiati intorno all'avello vuoto, assistono stupiti al miracoloso evento (quest'ultima parte è andata perduta durante il terremoto del 1976). 

II Ghedina eseguì anche un affresco con La prima confessione di San Luigi Gonzaga per la Cappella di San Luigi, andato perduto causa il terremoto del 1976.


I dipinti delle pareti

I dipinti con san Luigi Scrosoppi e la Madonna

Sulla parete della navata è esposto il dipinto del pittore tarcentino Renzo Cian con San Luigi Scrosoppi benedicente: l’immagine del santo, qui raffigurato insieme con madre Cecilia Piacentini, superiora generale e cofondatrice delle suore della Provvidenza, e alcuni bambini sorridenti, è ripresa dal ritratto eseguito da Antonio Milanopulo nel 1885 e conservato nel collegio della Provvidenza di Udine.

Più avanti un altro dipinto di Renzo Cian, la Madonna con bambino, copia del luminoso dipinto di Palazzo Pitti a Firenze eseguito intorno al 1650-1660 dal pittore spagnolo Bartolomè Esteban Murillo.

 

 

Il dipinto con San Francesco di Paola

 Segue un quadro ad olio su tela, di grande dimensione, del pittore di Nimis Giovanni Battista (Titta) Gori (1870-1941), particolarmente attivo nella zona pedemontana, apprezzato per la sua pittura di sapore preraffaellita, cordiale, comprensibile, rispettosa dell'iconografia tradizionale, giocata su colori teneri, pastellosi, delicatamente sfumati. Raffigura San Francesco di Paola protettore dell'infanzia, ed è stato inaugurato, con il titolo di Carità, nell’agosto del 1927 in occasione del XXV della prima messa del pievano di Tarcento don Camillo di Gaspero.

All'interno di un tempio, in sintesi riassunto da una balaustra e da una colonna, seduto sotto un ampio tendaggio verde, il santo - ritratto nelle consuete sembianze - tiene accanto a sé due bambini mentre un angelo alato, in piedi sulla sinistra, a lui si rivolge con i palmi delle mani aperte.

Approfondimento

Si incontra poi la copia di un dipinto del 1595 di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, il Riposo durante la fuga in Egitto, esposto a Roma nella Galleria Doria Pamphilj: è opera, attenta e misurata, di Renzo Cian.



La navata sinistra

L'altare del Sacro Cuore

Segue, addossato alla parete, l’Altare del Sacro Cuore (già di San Giovanni), eretto nel 1857. In marmo bianco con riquadri verdi, semplice nella struttura, privo di decorazioni di qualche interesse, con la statuina dell'Angelo dell'Annunciazione collocata in alto a lato dell'arco (perduta è la statuina della Madonna) e la Colomba dello Spirito Santo nella lunetta, conserva oggi al suo interno una colorata statua del Sacro Cuore di Gesù (bottega della Val Gardena, sec. XX).

L'altare della Madonna del Rosario

Più interessante, sia dal punto di vista storico che artistico, è l’Altare della Madonna del Rosario, situato alla fine della navata di sinistra. Fu eseguito tra il 1796 ed il 1799 su disegno di Mario Cortenovis, fratello del più noto Angelo Maria, che fu superiore del celebre collegio dei Barnabiti di Udine ed apprezzato studioso del Friuli antico e medievale.

Esecutore materiale dell'altare tarcentino fu nel 1797 Adeodato (o Deodato) Periotti, altarista e scultore appartenente ad un'attiva famiglia di artisti operante nel Settecento e nel primo Ottocento soprattutto nel Friuli centrale.

Opera dalla struttura classicheggiante, piacevole per l'armonia delle proporzioni e per lo slancio ascensionale esaltato dalle belle colonne con capitello corinzio, non risulta affatto “disturbata” dagli elementi scultorei figurati, come sono le sei statue a tutto tondo poste nella zona del timpano e le deliziose testine di angioletti alati che abbelliscono i dadi sui quali insistono le colonne.

Nel paliotto, con la Madonna del Rosario tra santi, si evidenziano la sommarietà della narrazione ed alcune ingenuità prospettiche; i personaggi emergono da un piano di fondo ove sono appena accennati degli elementi architettonici a suggerire un interno di abitazione, in un silenzio di atti e di gesti.

Approfondimento
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Tra i sette fratelli Cortenovis che intrapresero la carriera ecclesiastica e si distinsero nelle lettere e nelle arti, Mario (1735-1798) fu colui che, oltre all'insegnamento della retorica, del greco, della filosofia e della matematica, si dedicò all'architettura, progettando tra l'altro il presbiterio della basilica di Santa Maria delle Grazie in Udine (1785), la chiesa parrocchiale di Montereale Valcellina, la chiesa della Madonna delle Pianelle, quella di Santo Stefano in Centa a Nimis ed un altare per la parrocchiale di Reana del Rojale. 


La scultura lignea

Nella nicchia centrale, venne inizialmente inserita una scultura lignea settecentesca della Madonna del Rosario, probabile resto di un precedente altare, ma alla fine dell'Ottocento venne affidato al prolifico ed apprezzato intagliatore udinese Luigi Piccini (o Pizzini) il compito di realizzarne una di analogo soggetto, che tuttora orna l'altare.

Piacevole ed elegante, dolce nel modellato dei volti, corretta nelle forme, con abiti sontuosamente dipinti, la statua si qualifica come buon lavoro di carattere artigianale e spiega a sufficienza il largo consenso che la produzione scultorea del Pizzini ottenne presso i contemporan

I misteri del Rosario

L’altare si completa con i quindici tondi che illustrano i misteri del Rosario

Nel 1807 il pittore Carlo Michele Boldi (nato a Tarcento nel e morto nel 1808), che già la chiesa aveva chiamato, una ventina d’anni prima, ad eseguire nel soffitto della navata affreschi perduti durante il rifacimento della chiesa alla metà dell'Ottocento, eseguì le pitture. Questo è forse l'ultimo lavoro del Boldi, autore nelle chiese friulane di una decina di affreschi sacri che lo mostrano seguace modesto e provinciale dei grandi interpreti della stagione veneta in Friuli nel Settecento.

Dei quindici deliziosi tondi dipinti con i Misteri del Rosario - scenette di sapore quasi miniaturistico, piene di movimento, con figurine vivacemente descritte, talvolta con apprezzabili accenti intimistici (lo stupore della Vergine nell'Annunciazione), talaltra con accenti di forza (il gesto perentorio di Gesù nell'episodio della Disputa con i dottori) - ne rimangono undici di originali, mentre quattro, andati perduti per la caduta del colore, sono stati rifatti nel 1994 da una giovane pittrice tarcentina, Stefania Pittini, che ha imitato tecnica e stile del Boldi per conferire omogeneità all'insieme.

Il presbiterio e l'altare maggiore

Il vasto, scenografico presbiterio, dominato dal fastoso altare maggiore, presenta nelle pareti d’ingresso due copie, eseguite da Renzo Cian, di dipinti famosi: a sinistra La crocifissione di San Pietro del Caravaggio (1600-1601), esposta nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, a destra La Deposizione di Cristo dei Raffaello esposta nella Galleria Borghese di Roma (1507).

L'altare maggiore

L’antico altare ligneo di Leonardo Thanner, che nel 1498 era stato collocato su una mensa nel presbiterio, deperito a causa dei tarli e dell’umidità, fu sostituito da un nuovo altare maggiore, eretto nel 1776. Tale altare a sua volta lasciò spazio, agli inizi dell'Ottocento, ad un sontuoso, spettacolare altare in marmo risalente alla fine del secolo XVII. Si trovava in origine nella chiesa del monastero della Cella a Cividale del Friuli: soppresso per decreto napoleonico nel 1810, e posto in vendita dal demanio. Il marmoreo altare fu trasportato nel duomo di Tarcento, dove nel 1813, ad opera dei fratelli Adeodato e Francesco Periotti, altaristi, fu collocato con tanta accortezza e buon gusto che - a vederlo - lo si direbbe nato sul posto.

Opera di un ignoto scultore veneto, l'altare si fa apprezzare per l'armonioso insieme, la bontà della struttura architettonica e l'eccellente ed elegante fattura delle statue.

Due coppie di preziose colonne in marmi colorati sostengono un elaborato fastigio mosso da sinuose volute ed arricchito da statuine di putti alati e dalla robusta statua del profeta Mosè, seduto in atteggiamento pensoso, con gambe accavallate e scattante torsione del busto e da quella di re David, accompagnato dai simboli del comando, la corona, lo scettro, il manto regale. Davanti alle colonne, due grandi eleganti figure di angeli, uno dei quali tiene in mano le chiavi di san Pietro; altri due angeli sono collocati all'esterno del presbiterio.

 

Approfondimento

L’impianto architettonico, così come le statue, presenta interessanti punti di somiglianza con l'altare della cappella della Beata Vergine delle Grazie del duomo di Faenza costruito tra il 1681 ed il 1685 ed attribuito, per quanto riguarda le statue, allo scultore olandese (ma operante a Venezia, e anche a Udine, dove nel 1694 scolpisce una Pietà nella Cappella del Monte di Pietà) Heinrich Meyring (Enrico Merengo). A lui si può attribuire anche l'altare maggiore della chiesa di Tarcento, che nonostante alcune discutibili “interpretazioni” nel montaggio (la mensa è stata avanzata rispetto al corpo dell'altare e, su dì essa, oggi sono collocate due statue di angeli inginocchiati di nessun valore artistico, acquistati nel secolo scorso presso una ditta romana, mentre i due grandi angeli cerofori originali ad ali spiegate sono stati trasportati all'inizio del presbiterio), si mostra di notevole bellezza e di gran pregio qualitativo. 



La pala del Politi

L’altare contiene, entro una sagomata cornice in marmo marrone, un grande dipinto ad olio su tela, raffigurante La consegna delle chiavi a san Pietro, commissionato qualche tempo prima del 1831al maggio pittore udinese dell’Ottocento, Odorico Politi, vissuto tra il 1785 ed il 1846, frescatore e ritrattista eccellente. 

Entro un paesaggio di vasto respiro, attentamente delineato con un cielo percorso da nubi e un robusto fronzuto albero sulla destra e un lontano accenno di vegetazione, al centro Gesù, in piedi su un aspro e roccioso terreno, attorniato da apostoli, si rivolge con gesto imperioso verso san Pietro, che tiene le chiavi in mano. Felicemente risolta in primo piano, sulla destra, la figura di un barbuto apostolo, visto di profilo, a torso nudo. Un dipinto dal sapore decisamente accademico.

Gli affreschi nel presbiterio

Nel 1903, come recita una iscrizione dietro l’altar maggiore, sotto la pala del Politi, il duomo fu ingrandito: nuova dimensione venne ad assumere soprattutto il presbiterio, nelle cui pareti furono aperte delle bifore nel ricordo delle basiliche paleocristiane. A decorare cupola e pareti venne chiamato nel 1905 il pittore gemonese Francesco Barazzutti (1847-1918), noto frescatore, operoso in Friuli e nei territori dell’Impero agli inizi del Novecento. 

Barazzutti raffigurò nel cupolino una bianca Colomba dello Spirito Santo da cui promanano raggi di luce che illuminano l'azzurro cielo, nella fascia più bassa della cupola, tra motivi decorativi, otto Angeli entro concavi spazi, nei pennacchi i quattro Dottori della Chiesa, nella semilunetta della parete di fondo la Crocifissione, nelle pareti laterali, sopra le bifore, quattro Arcangeli entro tondi.

La scena più complessa è quella relativa alla Crocifissione, con le figure (la Madonna e san Giovanni alla sinistra della croce, le tre pie donne alla destra) che si stagliano contro un cielo corrusco solcato da nubi; a destra, lontana, una sfumata veduta di Gerusalemme. 

L'iconografia è quella della tradizione, mentre un qualche apporto personale rende accettabili le figure dei quattro grandi Dottori della Chiesa d'Occidente (Agostino, Ambrogio, Girolamo e Gregorio). 

Le otto allegoriche figure angeliche della cupola, alate e intente alle più diverse funzioni sacre, si alternano accompagnate o meno da pergamene con scritte sacre: «ECCE PANIS ANGELORUM», «FORTITUDO DEI», «LAUDATE EUM IN SONO TUBAE», «MEDICINA DEI», mentre quelle, più statiche, entro tondi alle pareti recano una croce, un giglio, una palma, un libro.

La navata destra

L'altare della Beata Vergine

Nella parete di fondo della navata destra si incontra l'altare marmoreo dedicato alla Beata Vergine, commissionato dalla confraternita dei Battuti che nel 1704 aveva incaricato il capomastro di Tricesimo Francesco Martinuzzi di costruire una cappella atta a contenerlo Allo scalpellino Biagio Valle, pure tricesimano, la confraternita affidò quindi il compito di fare la mensa con la scalinata, ma è probabile che al Valle spetti non solo l'esecuzione della mensa, ma di tutto l'altare.

La cappella fu decorata nel 1717 con due immagini dal pittore Antonio Peres di Colloredo di Monte Albano, incaricato anche di ravvivare le pitture della casa della confraternita.

L’altare, detto anche dei Santi Martiri in quanto nel 1842 vi vennero trasportate le reliquie dei martiri Aurelia ed Aureliano, estratte dalle catacombe di San Ciriaco in Roma e concesse alla pieve dl Tarcento da papa Gregorio XVI, è di fattura sobria ma proporzionata. Sviluppato in altezza, si caratterizza per le quattro snelle colonne con capitelli in marmo di stile corinzio che sostengono l'elegante ed “importante” fastigio arricchito da angeli e putti adagiati sulle volute di raccordo e dalla colomba dello Spirito Santo scolpita nel quadrato. La mensa è interessata da un piacevole gioco decorativo, dovuto all'uso di marmi di diversa cromia.

 

La pala con la Presentazione

A decorare l’altare è un dipinto del XVIII secolo con la Presentazione di Gesù al Tempio, fedele alla tradizionale iconografia, che unisce a questo rito anche quello - contemporaneo secondo l'evangelista Luca - della Purificazione della puerpera. Il primo rito richiedeva il sacrificio di due tortorelle o due colombe.Composizione serrata che vede entro il tempio il vecchio Simeone, con accanto due figure maschili, accogliere dall'alto di una scala il bambino che la Vergine gli porge. Sulla destra, Giuseppe che tiene in mano una candela ed un giglio, sulla sinistra, un fanciullo che regge la navicella ed il turibolo con l'incenso. Seduti a terra, la profetessa Anna ed un giovane con la gabbietta con le tortore. Non datato e non firmato, il dipinto viene attribuito al bergamasco Vincenzo Orelli (1751-1813), autore nel 1775 delle tele con i Sette Dolori della Vergine eseguite per conto del monastero dei Sette Dolori di Udine e pervenute alla chiesa di Varmo dopo la soppressione napoleonica. E’ possibile che anche il dipinto tarcentino provenga da qualche monastero soppresso.

 

L'altare di San Giuseppe

Nella navata destra, verso l’ingresso, si trova l’altare di San Giuseppe, eretto nel 1856 e consacrato l'anno seguente. È in legno dipinto per imitare il marmo ed ha forme neoclassiche, con due colonne esterne che sostengono un arco a tutto sesto e due interne trabeate.

Nel nicchione, in bassorilievo su fondo oro, è intagliata la Natività, mentre nella mensa è raffigurato il Transito di san Giuseppe che ha accanto la Madonna e riceve la benedizione di Gesù. Bassorilievi di discreta fattura da assegnarsi, così come l'intero manufatto, ad un intagliatore gemonese. L'altare contiene una statua in cartapesta di San Giuseppe che tiene in braccio il Bambino (secolo XX).

I dipinti della navata destra

Nella parete due quadri ad olio su tela: il primo è una copia di Renzo Cian della Cena in Emmaus del Caravaggio (1606) conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano.

Il secondo è opera del 1926 firmata da Titta Gori e raffigura l'Estasi di san Francesco. Così come in altri dipinti, Gori dimostra la sua attitudine a trascendere le secche convenzioni, pur indulgendo in esse. La posa pietistica del santo è riscattata dall'acutezza fisionomica, cui si aggiunge la preziosità degli azzurri, dei bianchi, dei rosati, resi fluidi, evanescenti.

 

Ancora due dipinti di Renzo Cian, l’Incredulità di san Tommaso, copia del quadro di Caravaggio (1601-1602) nella Bildgalerie di Potsdam, ed un olio su tela che raffigura due grandi personalità della Chiesa, papa Wojtyla (Giovanni Paolo II) e Madre Teresa di Calcutta.

In una nicchia prossima all’uscita è collocata una statua con San Pietro in trono, in legno scolpito e dipinto, opera dell'intagliatore udinese Luigi Pizzini, eseguita nel 1898 e certamente mutuata nell'iconografia da una statua di Domenico da Tolmezzo.

La cripta

Alla fine della Prima guerra mondiale, il fervore patriottico che animava gli Italiani, portò i Tarcentini a trasformare tra il 1921 ed il 1923, ad opera di Giuseppe Barazzutti, la cripta del duomo in una cappella monumentale dedicata a Sant'Antonio da Padova a «Ricordo de' Caduti di Tarcento nella Grande Guerra». Venne così a trovare concreta attuazione, anche a Tarcento, l'idea del direttore della scuola 'Beato Angelico' di Milano, Giuseppe Polvara, che suggeriva di trasformare le cripte in cappelle monumentali perché in tal modo, oltre ad assolvere ad un compito celebrativo, potevano essere utilizzate come “chiesa invernale”.

II piccolo ambiente, che sul pavimento porta la data 1918, ha soffitto a volta ribassata nella quale sono dipinti simboli cristiani (ibis stilizzati che si lacerano il petto con il becco, sacri calici...), pareti laterali con decorazioni entro le quali sono inseriti tondi con fotografie e nomi dei caduti, parete di fondo con figure dipinte e al centro, tra colonne, una immagine a stucco dovuta all'artigiano udinese Umberto Sgobaro.

 

La decorazione

 

L'apparato decorativo mostra riprese bizantineggianti, nell'accentuata simmetria compositiva e nella sovrabbondanza decorativa delle vesti e dei fondi che richiamano quasi le tappezzerie. Sulle pareti e sugli arconi il rimando ai mosaici ravennati è accentuato da una complessa simbologia religiosa. L'altare in stucco, in appiattito rilievo, pare ispirato a modelli neobizantineggianti allora di moda.