Il Duomo di Cividale

Il Duomo di Santa Maria Assunta di Cividale del Friuli

Il Duomo di Cividale

Le origini del Duomo

La presenza dell’imponente duomo, che sovrasta per mole, impianto architettonico e dotazione artistica le pur pregevoli altre chiese ed oratori eretti nella città ducale, trova la principale motivazione nella antichissima presenza di istituzioni religiose di primaria rilevanza. Vi si trovava la Prepositura di Santo Stefano e, soprattutto, il Capitolo di Santa Maria Assunta, un collegio sacerdotale ricco e potente, ampliato nella sua giurisdizione e rafforzato economicamente da privilegi e munifiche donazioni di pontefici e patriarchi.

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Nel corso della dominazione longobarda, dall’anno 737 si insediava a Cividale, un centro fortificato, il Patriarca di Aquileia. Il primo fu Callisto, che allontanava Amatore, l’ultimo dei vescovi di Zuglio i quali, sin dal 705, nella città avevano stabilito la loro sede temporanea. La presenza dell’autorità patriarcale, con la sua corte, nella Civitas Austriæ – così in quei secoli si denominava la località sul fiume Natisone – influì anche sulla genesi architettonica e sulle committenze d’arte della cittadina, che fino al XIII secolo deterrà il ruolo di capitale della Patria del Friuli, primato conteso e in seguito acquisito da Udine.

A Cividale era presente dal 705 un vescovo e quindi possiamo presumere l’esistenza di un edificio di culto consono a tale dignità, che si ritiene sorgesse sull’area dell'attuale duomo, spostato poco più a nord. L’ipotesi di una sua antica fondazione è però basata su pochi, esili elementi, quali un pluteo del VI secolo e un frammento di capitello di imitazione corinzia (fine V-inizio VI secolo) pertinente a un ampio colonnato, che potrebbero aver abbellito una struttura cultuale paleocristiana, di origine e connotazione ancora sfuggenti; altre testimonianze materiali di elementi decorativi pertinenti al complesso episcopale consistono in alcune lastre frammentarie attribuibili all’inizio dell’VIII secolo. Scavi condotti nel 2001 e 2002 nelle sacrestie dell’attuale basilica hanno documentato l’utilizzo insediativo del sito almeno a partire dalla tarda antichità sino all’età altomedievale, in seguito convivendo con una destinazione funeraria che si fece prevalente nell’area più prossima alla chiesa, ma non sono emersi contributi utili a chiarire la probabile genesi paleocristiana del complesso episcopale.

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Sul sagrato del duomo, scavi del 1906 hanno portato alla luce le fondamenta del battistero ottagono di San Giovanni Battista, eretto o più probabilmente fatto restaurare da Callisto; in esso erano collocati il fonte battesimale e lo splendido altare del duca Ratchis, entrambi ancor oggi si possono ammirare nel Museo Cristiano. 

Assai poco si conosce delle caratteristiche originali e dell’evoluzione cui è andato incontro l’edificio sacro che, nel tempo, è stato più volte rinnovato sul medesimo sito. Si ipotizzano interventi sul presbiterio, in particolare per una nuova recinzione, forse in occasione del concilio convocato a Cividale nel 796 e tenuto in questa basilica, che già allora aveva l’intitolazione a Santa Maria Assunta, mantenuta poi inalterata nel tempo.

La storia dal X al XV secolo

Le notizie che si posseggono offrono, piuttosto, la possibilità di tracciare una corposa sequenza delle tormentate vicissitudini che hanno costellato la plurisecolare esistenza del duomo. Il potere distruttivo del fuoco impose più volte interventi riparatori, anche di notevole consistenza, come il furioso incendio del 1186, il cui susseguente ripristino fu promosso dal patriarca Pellegrino II, che coinvolse 380 oblatori cividalesi nella raccolta dei fondi necessari. Un ingrandimento si ebbe sotto il patriarcato di Gregorio da Montelongo (1259-1269); un fulmine colpì la torre campanaria nel 1299 e furono ancora le fiamme a rovinare il tempio nel 1342. Attorno a esso, nel tempo si erano addossate diverse cappelle, che andavano a modificare l’aspetto primitivo del complesso Santa Maria-battistero di San Giovanni. Si erano da poco diradati i fumi dell’ultimo rogo, che il duomo subì i rabbiosi, destabilizzanti morsi del terremoto del 25 gennaio 1348 e stavolta fu il presule Bertrando a farlo risorgere quale mitica fenice, il cui volo fu di nuovo bruscamente interrotto da un violento sisma, che l’anno 1448 ne piegò la resistenza statica.

La serrata sequenza di avvenimenti negativi era contrastata dalla caparbia volontà del Capitolo non solo di riparare il duomo, ma pure di ampliarlo, come i canonici auspicavano dal 1427, quando chiedevano il sostegno finanziario della Comunità per incorporare le cappelle addossate alla sua facciata e fare avanzare quest’ultima di una decina di metri. Quattro lustri dopo, i danni del terremoto obbligavano invece a riedificarlo dalle fondamenta, a tale scopo si otteneva anche una prebenda decennale dal pontefice. Da una riunione di esperti, convocata nel 1451, sortivano pareri diversi sul da farsi e gli anni successivi vedevano un difficoltoso avvio dell’indilazionabile opera, per il permanere delle divergenze sulle soluzioni architettoniche ritenute preferibili in quel contesto.

Il nuovo duomo nel Quattrocento

Dopo aver dimostrato le sue capacità cimentandosi nella costruzione del ponte lapideo sul Natisone, era Erardo da Villaco a ricevere nel m1451 l’incarico di costruire il nuovo duomo; non riusciva a dispiegare appieno le sue competenze, perché usciva presto dalla scena, morendo nel 1453.

Nel 1457 l’assenza del proto era colmata da Bartolomeo Costa Sbardilini, capodistriano chiamato ‘delle Cisterne’ per essersi dedicato a opere di ingegneria idraulica;

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Il progetto di Bartolomeo prevedeva una chiesa di tipo gotico, a tre navate dalle alte arcate ogivali, con copertura a crociera sostenuta da pilastri ottagonali, ove la luce sarebbe fluita da tre occhi circolari frontali e da alte finestre archiacute sui fianchi. Dopo un promettente avvio nel 1457, con la generosa concessione della Comunità di 200 carri di pietra per costruire e avviare una fornace da calce, i sostegni economici rallentavano sensibilmente, anche da parte dello stesso Capitolo. Nel febbraio 1458 si giungeva a chiedere ai manovali di prestarsi a lavorare gratuitamente per gli scavi delle fondamenta, inevitabilmente in pochi mesi le assenze nel personale diventavano vistose. Avversità eterogenee – inondazioni, pestilenze, invasioni turchesche – unite alle perduranti ristrettezze economiche, facevano progredire molto a rilento la costruzione, nella cui parte inferiore trovava collocazione l’elaborato portale maggiore, eseguito nel 1465 dal maestro Jacopo Veneziano. Per rimpinguare le casse esauste, si ottenevano dal papa le rendite di due canonicati vacanti. 

Alla morte di Bartolomeo Costa (1480) era ultimata l’abside ed eretta la parte inferiore della facciata, fin sotto il cornicione. I lavori proseguivano, sempre a ritmi ridotti, sotto la direzione di vari capomastri, quali mº Antonio Veronese, mº Alberto da Monte da Padova e suo nipote Francesco, questi ultimi avevano il delicato incarico di “girare gli archi sopra le colonne”, come risulta dal relativo contratto del 6 aprile 1494. In quel tempo, il patriarca Nicolò Donato riportava a Cividale la sua residenza ordinaria – dal 1238 era stata spostata a Udine –, iniziativa simbolicamente rilevante ma destinata a spegnersi nel giro di pochi anni, quando il presule passava alla dimora eterna; in segno di riconoscenza, le sue spoglie mortali resteranno per sempre nella città ducale.

Pur incompleto, l’erigendo edificio sacro inorgogliva i concittadini, lo storico Nicolò Canussio nella sua opera De restitutione Patriae, scritta intorno al 1498, decantava l’importanza del duomo che avrebbe accresciuto il decoro della città, ampliato in modo che la lunga teoria dei canonici, in nessun luogo d’Italia più numerosi, potesse partecipare alle sacre funzioni (…) e la grande affluenza del popolo potesse più agevolmente essere accolta.

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I lavori proseguivano a singhiozzo, protratti quel tanto consentito dalle risorse via via racimolate, così nel 1500 si collocavano alcune capriate ma, prosciugato il troppo esiguo fondo, l’opera si fermava e il legname restava esposto alle intemperie per buona parte dell’anno seguente; la copertura del tetto riprendeva non appena possibile, poggiando necessariamente su travi ormai deteriorate. L’intera struttura soffriva i segni dei cantieri attivati con deleteria altalenanza, sotto diverse menti direttive e su cui gravavano anche alcuni errori costruttivi; inoltre, perseguendo il maggior risparmio, colonne e archi venivano eretti anche impiegando materiale poco idoneo. In verità, la precarietà di muri e fondamenta era già stata denunciata a suo tempo da Bartolomeo delle Cisterne, voce competente e autorevole, ma rimasta inascoltata. Le conseguenze di questi dannosi fattori si mostravano terribili: i lenti progressi raggiunti nei lavori protratti per otto lustri, erano azzerati nella notte del 29 gennaio 1502, quando il cedimento di un pilone di destra provocava l’improvviso crollo della navata centrale, facendo rovinare l’intera copertura e gran parte dell’edificato, tranne le colonne e la parte inferiore della facciata. 

La costruzione nel Cinquecento

L’immane disastro del 1502, che avrebbe potuto determinare il definitivo oblio del progetto, provocò invece la ripresa della tormentata opera con rinnovato vigore, sostenuta da nuovi fondi provenienti da privati e istituzioni civili e religiose. Per il notevole lasso di tempo trascorso dalla progettazione iniziale, gli stili architettonici erano ormai cambiati e l’adeguamento ai nuovi canoni rinascimentali si otteneva affidando il proseguimento del lavoro a Pietro Solari detto Lombardo, l'architetto più celebrato del momento, allora impegnato con la prestigiosa impresa del Palazzo Ducale a Venezia. Il relativo contratto era sottoscritto il 9 maggio 1502. Anche in questo caso, nella fase attuativa il tempo si dilatava, tanto che pure l’architetto Solari lasciava questo mondo, nel 1515, senza assistere al completamento dell’opera. Il suo posto fu assunto dai figli Tullio e Antonio.

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In base agli accordi Pietro si obbligava alla posa degli otto arconi sui pilastri della navata centrale e dei tre arconi agli ingressi delle cappelle presbiteriali. Per la fine del 1504 era previsto di portare a termine le tre navate ed erigere le pareti laterali fino alla facciata. Il Consiglio cittadino prometteva di fornire 300 operai, per pagare i quali si imponevano agli abitanti delle imposte straordinarie.


Anche in questo caso, nella fase attuativa il tempo si dilatava, tanto che pure l’architetto Solari lasciava questo mondo, nel 1515, senza assistere al completamento dell’opera. È attestata la presenza e l’avvicendamento sul cantiere dei suoi figli, Tullio che riceveva un pagamento nel settembre 1502 e Antonio, presente a Cividale nell’agosto dell’anno successivo, in precedenza rimasto a Venezia. La collaborazione dei due fratelli con il padre risulta essere una prassi usuale, in tal modo la fiorente bottega Lombardo, aperta stabilmente nella città lagunare, riusciva a soddisfare egregiamente le numerose e impegnative commesse, variamente dislocate.


La capella granda, ovvero quella centrale, era ampliata acquisendo un’area posta sul retro della vecchia abside e demolendo due locali adiacenti alla precedente cappella laterale sinistra. L’area del presbiterio assumeva una planimetria già presente in chiese ove i Lombardo erano intervenuti negli anni precedenti, come nel duomo di Treviso, nella chiesa veneziana di San Salvador e che, in seguito, troverà riproposizione anche a Belluno. In particolare, si ritiene di ascrivere al classicismo di Tullio i rapporti proporzionali delle rinnovate cappelle presbiteriali dell’edificio cividalese, ove il non facile accordo tra vecchie e nuove strutture era ottenuto ricavando il quadrato di base delle cappelle laterali dal dimezzamento della lunghezza delle navate rettangolari quattrocentesche. Pure il tema del presbiterio sopraelevato, già presente in opere precedenti della bottega lombardesca, trovava sviluppo nel duomo cividalese con alcune varianti, come il disegno dei pilastri dell’arcone trionfale a pianta cruciforme, onde poggiare su essi sia l’imposta degli archi della navata centrale, sia quelli delle cappelle laterali. 

L’opera, come prevedibile, si rivelava immane e dispendiosa; un’ennesima sosta era dovuta alla guerra di Cambrai – scaturita tra la Serenissima e la Lega che gli era avversa, combattuta sul suolo friulano – e quando si riprendevano i lavori, nel solo 1518 vi si impiegavano centomila giornate lavorative, per cercare di recuperare il tempo sottratto dal conflitto. L’anno seguente l’architetto Giovanni Fontana, allora impegnato nella costruzione del Castello di Udine, con una missiva inviata al decano capitolare offriva senza algun premio, cioè gratuitamente, la sua consulenza per far maggiormente progredire i lavori. L’idea originaria dei Lombardo era quella di innalzare sopra la cappella maggiore un grandioso cupolone, che avrebbe proiettato il duomo cividalese all’apice delle novità architettoniche nel contesto friulano. Tempi, costi e difficoltà tecniche portavano però l’architetto Fontana a consigliare la riduzione dell’ambizioso progetto, limitandosi a una calotta ribassata, sormontata all’esterno da una semplice copertura a padiglione, come si può vedere al presente.

Nel 1527 alla schiera di lavoranti si aggiungevano altri 150 operai, l’anno successivo un incendio colpiva le sale capitolari ma fortunosamente risparmiava l’erigenda chiesa, per la quale il Comune concedeva altro legname onde approntare le armature necessarie. La cappella sacrarii, quella a sinistra dell’abside, era ultimata tra il 1526 e il 1530.

La consacrazione nel 1529

Il 9 maggio 1529 nel duomo risuonavano le preci della cerimonia di consacrazione, essendo stata perfezionata la parte absidale e il tetto ma, come detto, diverse parti erano ancora incomplete. Trascorrevano parecchi decenni per assistere all’agognato termine dei lavori strutturali. Fondi per principiare la pavimentazione dell’interno erano stanziati alla fine del 1536 e solo nel 1549 si ricopriva in marmo bianco e rosso il pavimento della navata maggiore.

La facciata

Lavori per la facciata si praticavano nel 1531, ma al completamento della sua parte superiore metteva mano il lapicida Giovanni Andrea degli Asturi solo dal 1535, quando nel mese di maggio si ordinava il trasporto di pietre per essa; a quel tempo Tullio Lombardo era deceduto (1532), suo fratello Antonio era scomparso già nel 1516.

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L’armonizzazione della fase rinascimentale con la struttura gotica quattrocentesca, caratterizzante la parte bassa della facciata, si otteneva raccordandola attraverso due ampie ed eleganti volute affiancanti la fronte timpanata, soluzione comunemente riportata alla bottega solariana. Tale completamento pare guardare a quanto elaborato da Leon Battista Alberti – del quale la facciata di Santa Maria Novella a Firenze (1470) rappresenta il modello più famoso – ed è noto che Pietro Solari il Lombardo era un artista fortemente legato al clima umanistico toscano; il medesimo motivo era inserito da Pietro nel trittico marmoreo nella cappella Giustinian di San Francesco della Vigna a Venezia, inoltre le caratteristiche ali laterali si trovano nella chiesa del monastero di Praglia, ove aveva travagliato suo figlio Tullio. Però sappiamo anche dei contatti intercorsi nel 1519 tra il Capitolo e l’architetto Fontana, quand’egli era coinvolto nel rinnovamento della chiesa udinese di Santa Maria di Castello, nella cui facciata compiuta nel 1526 si adottavano le stesse volute di raccordo laterali, pur di minore ampiezza. Tenuto conto che la facciata del duomo cividalese trovava compimento a partire dal 1535, si ritiene di non poter escludere una ripresa della medesima soluzione, su suggerimento dello stesso Fontana.

Un altro elemento dibattuto è la sostituzione nella facciata del previsto occhio centrale di grande circonferenza con il presente finestrato a trifora, dalle slanciate arcate a ghiera e trabeazione con cornice fortemente aggettante. Tenendo conto che un modello di trifora in quel contesto cronologico poteva provenire dal portale del Castello di Udine, inserito dal Fontana, egli potrebbe aver anche suggerito tale motivo per la facciata cividalese. Secondo altri studiosi, invece, per la notevole aderenza dell’apertura tripartita in questione con la bifora presente sulla chiesa di San Giacomo in Mercatonuovo a Udine, opera affidata nel 1525 a Bernardino Morcolini da Morcote (morto nel 1542), è stata avanzata l’ipotesi della sua paternità pure per la trifora cividalese.

I lavori del Settecento

Nel 1712 si rese necessario affrontare ingenti spese per l’ampliamento delle sacrestie, per la riparazione delle minaciate Ruine del coperto del Coro e lavori nella cripta.

Alla metà del XVIII secolo fu promossa un’ulteriore fase di rinnovamento. Il Capitolo, allora formato da 36 canonici e da una dozzina di mansionari, nella riunione del 13 febbraio 1766 deliberava la riforma degli interni, indilazionabile per migliorare l’ormai insostenibile situazione. Si obbligava al concorso delle ingenti spese tutte le chiese soggette alla giurisdizione capitolare – erano 40 parrocchiali e 300 filiali – e si contava sulle contribuzioni dei tanti canonici. La progettazione fu affidata all’architetto Giorgio Massari, operante nell’ambito di un raffinato classicismo di ispirazione palladiana.

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Giorgio Massari acquisì i dati e le misure del maestoso edificio sacro attraverso il nipote Stefano, appositamente inviato a Cividale per effettuare i rilievi necessari, ma nella sua Venezia non riusciva a completare la fase progettuale prima che l’improvvisa dipartita gli togliesse, bruscamente e per sempre, la penna di mano. L’attivazione e la direzione del cantiere di questa ristrutturazione avveniva per opera del suo allievo Bernardino Maccaruzzi, che non riusciva però a procedere integralmente con le prospettate modifiche. Infatti, una parte consistente dei canonici si opponeva all’apertura dei grandi occhi sopra gli altari e intendeva pure mantenere intoccati gli archi gotici delle campate laterali, opponendosi alla loro trasformazione a tutto sesto, già messa in atto nella navata centrale per celare alla vista le capriate, fino ad allora scoperte. Anche la riforma degli altari laterali, contrariamente a quanto sinora ritenuto, non trovava attuazione in quel contesto lavorativo, bensì nel secolo seguente, come è stato documentato da recenti ricerche. 

La facciata del duomo

Nella chiara, compatta facciata in pietra viva si coglie il compromesso tra i due momenti di esecuzione diversi, con la parte inferiore eretta da Bartolomeo delle Cisterne a partire dal 1458, su cui era impresso l’armonioso ritmo rinascimentale, senza interrompere la nitidezza del profilo dagli spigoli netti e taglienti. Il motivo concavo, di ispirazione toscana, che raccorda il dislivello tra la navata centrale e le due laterali, conferisce una forte spinta ascensionale alla massa inferiore.

Il portale centrale

Il portale maggiore è opera del maestro Jacopo Veneziano, che nel 1465 lo realizzava in stile gotico fiorito, decorandolo con motivi che mostrano spiccata affinità e aderenza con il monumentale ingresso della chiesa di San Polo a Venezia.

Sugli stipiti sono posti in bassorilievo l’Arcangelo e la Madonna, di notevole saldezza plastica, mentre sull’architrave corre un’iscrizione, in caratteri gotici, dedicata alla Vergine.

Nel lunettone ogivale si trova una targa apposta nel 1790 a ricordo delle Indulgenze concesse in occasione dell'aggregazione all’Arcibasilica romana di San Giovanni in Laterano, sovrastata dallo stemma del Duomo e da quello basilicale che competeva alla chiesa dal 1909, quando era innalzata a Basilica Minore. Alla sommità, spazia lo sguardo del Padreterno, plasmato in piombo.

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Nella lunetta della porta laterale sinistra vi è una lapide che riassume le vicende delle chiese antecedenti, quella sulla destra cita Bartolomeo Costa come ‘ingegnere preclaro’. In corrispondenza degli ingressi laterali si trovano, in alto, due occhi circolari, mentre il portale maggiore è sovrastato dalla trifora che si eleva dalla robusta cornice marcapiano. La genesi del finestrato centrale è tuttora dibattuta, in quanto nel contratto del 1502 con Pietro Lombardo si precisava lassar el campo de mezo vacuo per poter per tempo, poi seguir la forma de un bel ochio; è incerto a quale magister in arte aedificatoria si debba tale soluzione, che contrasta con il capitolato contrattuale. La trifora è ritenuta valida per interrompere la monotonia della lunga trabeazione sottostante, mentre meno riuscita appare la sua integrazione con il vasto prospetto lapideo. Al culmine, sulla fascia di trabeazione è incisa una scritta dedicatoria alla Madre di Dio, ispirata all’incipit di un antico inno mariano.

L’interno del duomo

Il volume del vasto, solenne ambiente è armoniosamente scandito dalle imponenti colonne, che lo suddividono in tre ampie navate. I risalti della costruzione – lunga 67,50 metri – sono ravvivati dalle sottili profilature in pietra grigia di Torreano, aderenti ai contorni degli archi e degli occhi ciechi sulle pareti laterali e che trovano conclusione nella suggestiva partizione a spicchi del catino absidale. All’effetto prospettico contribuisce pure la sovrapposizione agli angoli di paraste e controparaste, che allungano artificiosamente il vano, ulteriore segno dell’abilità della bottega Lombardo sul controllo ottico spaziale. La ridondante presenza barocca che era stata copiosamente inserita, in evidente stridore con le strutture antiche, è stata dagli anni Sessanta del secolo scorso ridotta il più possibile. Si può così cogliere appieno la misurata grandiosità ottenuta dall'abile fusione tra la parte gotica, cui si deve la spinta ascensionale, quella rinascimentale e la ristrutturazione settecentesca. Saggi di pulitura sugli intonaci antichi e sulle parti lapidee hanno evidenziato che l’aspetto originario era assai chiaro e luminoso.

In corrispondenza del portale centrale, in terra un’iscrizione ricorda la posa del pavimento nel 1549; quello attuale in marmo grigio di Saravezza è del 1898. La coppia di eleganti pile dell’acqua santa è del 1601, opera di una coppia di lapicidi da Tricesimo.

Il monumento a Marcantonio da Manzano

Sulla parete interna della facciata, sopra il portale maggiore, si trova il monumento equestre di Marcantonio da Manzano, condottiero cividalese caduto nel 1617 durante la guerra di Gradisca; la scultura, in legno laccato, fu commissionata dalla Comunità di Cividale nel 1621. Sopra alle porte sono infisse quattro lapidi, che si riferiscono a momenti della storia del duomo e ricordano suoi benefattori.

La tomba del patriarca Nicolò Donato

Sulla sinistra della controfacciata si trova il monumento funebre del Patriarca Nicolò Donato, che ristabilì la residenza patriarcale a Cividale dal 1494 al 1497, anno della sua morte. Un tempo era collocato sulla parete sinistra della navata, anteriormente al 1669 veniva innalzato sopra il portale principale, nel 1969 è stato ricalato nell’attuale sistemazione, al posto dell'altare ligneo di Santo Stefano, ora nella chiesa di San Francesco.

Il monumento fu commissionato al bergamasco Giovanni Antonio di Bernardino da Carona (1477-1536) che vi lavorò dal 1513, realizzando un sarcofago chiuso da una lastra monolitica con il ritratto a figura intera del presule sul letto funebre, in abiti pontificali. Sul fronte della cassa vi sono due nitidi profili classici, a bassorilievo. A destra del sarcofago si vedono lo stemma del patriarca Donato e un’epigrafe che, come l’altra posta sotto il monumento, elogia i meriti del defunto con composizioni del poeta vicentino Cimbriaco.

In alto stanno tre statue di ottima fattura, da sinistra Sant’Ermacora, Madonna con Bambino e San Fortunato, che sembrerebbero far parte integrante dell’opera.

I brani di affresco che sono emersi vicino all’avello pensile si ritiene venissero dipinti al di sopra dei loculi funebri pavimentali, allineati contro le pareti, e danno idea di come queste superfici un tempo fossero decorate a vivaci cromie.

L'altare di San Giuseppe

L'istituzione di una fraterna devozionale cittadina ispirata allo sposo della Vergine risulta anteriore al 1525, otto anni dopo questo sodalizio commissionava ai fratelli Benedetto e Andrea degli Astori, lapicidi cividalesi, una cappella comprendente un altare marmoreo, nel cui vacuo centrale era collocata la palla di San Giuseppe, sovvenuta nel 1537 con dieci ducati dalla Magnifica Comunità di Cividale. L’altare di San Giuseppe è tuttora ornato da questa tela, realizzata da un Sebastianus pictor, che secondo recenti studi invece di Sebastiano Secante il Vecchio – come riferito tradizionalmente – potrebbe piuttosto essere Sebastiano Florigerio, residente a Cividale dal 1529. Il dipinto ritrae S. Giuseppe che tiene in braccio Gesù Bambino, tra i Santi Rocco e Sebastiano, posti su uno sfondo di architetture in rovina ed è stato ritoccato alla metà del Settecento. La stessa fraterna in seguito promuoveva la sostituzione del vecchio altare ligneo con un manufatto in marmo; i relativi lavori erano avviati nel 1768, ma la soppressione napoleonica delle congregazioni religiose nel 1806 interrompeva l’intrapreso rinnovamento, che trovava completamento solo nel 1817 ad opera del gemonese Giacomo Pischiutti.

Il presbiterio

Il presbiterio è uno degli spazi più rappresentativi del duomo e ha avuto la sua sistemazione definitiva nel Settecento. La cripta semi interrata e il presbiterio sopra elevato è una soluzione comune nelle basiliche medievali, ma insolita nelle costruzioni rinascimentali. Forse a Cividale si reiterava una tradizione precedente o ci si ispirava ad Aquileia, oppure era Pietro Lombardo a riproporre quanto già validamente realizzato, come nella chiesa veneziana di S. Maria dei Miracoli, organizzata spazialmente in tal modo nel 1489.

L’ampia scalinata fu realizzata nel 1721 e allargata l’anno 1775, impiegandovi marmi antichi, abilmente ibridati con materiali appositamente fatti giungere da Venezia. Vi vennero collocati, al suo invito, i simulacri della Fede e della Speranza e sulla balaustra superiore le quattro statuine degli Evangelisti, distinti dai rispettivi simboli, opere di Francesco Aloi.

Il capomastro Gio Batta Panciera, cui si deve la realizzazione di diversi lavori settecenteschi in questa chiesa, nel 1766 completava la cupola presbiteriale facendovi convergere le membrature sottostanti, rendendo così più evidente la concavità. Sulla ‘naranza’ (il cupolino cieco), cinque anni dopo Giuseppe Diziani affrescava l’Assunta, cui è dedicata la basilica. Scendendo, lo sguardo incontra sulle pareti il Sepolcro di Maria e l’Assunta in cielo, opere monocrome dello stesso Diziani, poi le due grandi grandi iscrizioni laterali, apposte nel 1771 a memoria dei lavori compiuti e quindi la serie dei finestroni absidali, due ciechi e sette con vetrate policrome.

Le vetrate

Le quattro vetrate superiori presentano le figure della Madonna, Gesù, San Giacomo minore apostolo, San Luca Evangelista e provengono, quale dono offerto nel 1932 da un fedele cividalese, dalla basilica di Sant’Antonio di Padova, per la quale erano state realizzate nel 1865; le tre inferiori, eseguite nel 1938 su disegno di Leone Morandini, recano ognuna uno stemma.

L'altare maggiore

L’altare maggiore era dedicato, almeno dal XIII secolo, al patriarca Paolino d’Aquileia. Le sue spoglie mortali erano state traslate nel 1578 in questo altare, nel secolo seguente sostituito da un apparato ligneo di Pietro Tellino di Cormons.

All’inizio del Settecento anche per questo manufatto si procedeva con l’integrale rinnovamento, stavolta nel durevole marmo; la commissione era affidata a Francesco Fosconi e suo figlio Giovanni, di Portogruaro. Dopo aver posato nel 1717 la parte basamentale e la mensa, per l’accresciuto peso rispetto al precedente di legno, si rendeva necessario rinforzare la volta della sottostante cripta, che minacciava di crollare; risolti questi problemi statici, nel 1724 si giungeva al suo completamento, con la formazione del riquadro per il paliotto argenteo e il fastigio con l’animato gruppo dei putti. Vi trovavano collocazione, lateralmente, le statue dei Santi Pietro e Paolo, la cui virtuosa fattura porterebbe ad attribuirle ad altri artefici; sulla base di raffronti stilistici è stato recentemente ipotizzato trattarsi dello scultore veneziano Paolo Callalo (1655-1725), attivo nella città lagunare con frequenti puntate nell’entroterra.

Sull'altare è posto uno dei capolavori dell'oreficeria medioevale italiana, la Pala d'argento di Pellegrino II. Questo patriarca, che svolse il suo ministero dal 1195 al 1204, commissionò la splendida opera per farne munifico dono a Cividale, forse sua città natale.

Approfondimento

La pala, che misura 203x102 cm, è formata da 123 lamine d'argento con doratura a fuoco, lavorate con tecniche miste (sbalzo, cesello, stampaggio con punzone, filigrana). Si compone di quattro parti: un trittico centrale, due scomparti laterali e una fastosa cornice. Nello specchio centrale, sotto tre arcate separate da colonnine, sono rappresentati la Madonna con in grembo il Bambino benedicente, in quelle laterali gli arcangeli Gabriele e Michele che incedono verso di lei offrendo una pisside; le loro grandi aureole sono lavorate a filigrana e incastonate di pietre preziose. Le due valve laterali recano 25 figure intere di santi, raffigurati con i propri elementi distintivi e i nomi stampati a punzone. Sulla cornice, eleganti motivi floreali si alternano a 23 busti in clipeo di profeti biblici con cartiglio; sopra, al centro si riconoscono il Padreterno con la Madonna e San Giovanni. Pellegrino II è ritratto genuflesso in basso, sotto ai piedi della Vergine. Sullo sguancio interno della cornice, lungo i lati maggiori, si snoda un’epigrafe votiva, con l’augurio che la pala resti ben conservata e rivolge un temibile ammonimento per i suoi profanatori, destinati alle “pene eterne dell’inferno tra il freddo che contorce e il fuoco che divora”. Fu eseguita da più artisti, di bottega cividalese o comunque friulana oppure da maestranze veneziane, che avrebbero contribuito alla rinascita di una scuola d’oreficeria locale. Il periodo 1200-1204 pare il più probabile per la realizzazione di questa splendida pala, in origine concepita come paliotto per la faccia anteriore della mensa; lo testimonierebbero un’attenta lettura dell’iscrizione e anche i segni lasciati sulla sua superficie, spiegabili solo con il posizionamento nella parte inferiore; si ritiene sia stata collocata nella fascia alta dell’altare, come retrotabularium secondo l’uso odierno, dal Cinquecento. È documentato un tentativo di appaiare questo preziosissimo apparato decorativo con un’altra elaborata lastra argentea, a suo degno completamento. A tal fine, nel 1437 i canonici incaricavano l’orefice Nicolò di Domenico di approntare una anchona de argento, ma l’opera, procrastinata per decenni dall’inconcludente artigiano, non riusciva a trovare completamento, finchè nel 1450 il Capitolo si faceva restituire la materia preziosa già consegnata, per destinarla alla nuova fabbrica del tempio, due anni prima flagellato da un terribile sisma. Questo fatto giustificherebbe lo spostamento della pala di Pellegrino II nella parte superiore dell'altare, che non si era riusciti a dotare della seconda ancona argentea per l’inadempienza dell’orefice. Che il Capitolo tenesse particolarmente a questo spazio absidale è attestato anche dalla richiesta di affrescare queste pareti, avanzata nel 1524 al magistrum Ioanem Antonium de Portu Naonis, ovvero all’eccelso Giovanni Antonio de Sacchis detto, dalla città di nascita, il Pordenone, reputato il maggiore pittore friulano di tutti i tempi; l’accordo, però, non fu raggiunto. 

La cripta

Sotto il presbiterio si trova la cripta con la cappella della Pietà, cui si accede da entrambi i lati della scalinata. Le volte sono a crociera, sorrette da snelle colonne, vi si trova un altare consacrato nel 1914, progettato dal veneziano Max Ongaro, che andava a sostituire quello risalente al 1733.

Con la definizione del 17 gennaio 1734, il Capitolo decideva di levare le spoglie del patriarca Paolino (730 c.- 802) dall’altare di San Donato per riporle sotto la mensa di quello nuovo, in questa cripta, ove riposano tuttora in un apposito incavo; ricordiamo che la conservazione delle reliquie nella cripta è aderente al culto martiriale aquileiese. Sulle pareti sono murate due epigrafi sepolcrali, una dello stesso Paolino, l’altra del suo successore Orso. Una scultura seicentesca, raffigurante Cristo dolente, ha preso il posto della Pietà-Vesperbild (ora sull’altare della Madonna), che conferiva il titolo a questo ambiente. Dal 1921 sono qui tumulati due musicisti di grande fama, Giovanni Battista Candotti (1809-1876) e Jacopo Tomadini (1820-1883); vi è anche il sigillo tombale della famiglia nobile de Claricini, in quanto ad essa spettava la facoltà di eleggere il religioso officiante in questa cappella. Sulle pareti si susseguono le quattordici stazioni in cotto della Via Crucis dell’artista udinese Max Piccini (1899-1974), realizzate nel 1964.

L'altare di San Donato

Nella cappella absidale destra è posto l'altare di San Donato, patrono di Cividale dal X secolo, in seguito al trasporto in città delle sue reliquie dalla Pannonia (attuale Ungheria); per conservare il cranio di questo santo, nel 1374 si commissionava all’orafo cittadino Donadino un busto reliquiario, consegnandogli allo scopo 101 once d’argento; il pregevole elaborato trecentesco, ornato da pietre e smalti policromi, viene tuttora esposto e venerato nella solennità patronale, il 21 agosto.

Una cappella con la dedicazione al diacono san Donato è anteriore al 1186, quando si salvava da un incendio devastante il resto del duomo; la sua alta considerazione nel culto e nella liturgia locale trova conferma nella priorità, rispetto ad altri lavori, con cui nel 1450 il Capitolo stabiliva di completarla ed intonacarla, due anni dopo il violento terremoto che aveva fatto precipitare una parte del tempio. Sul declinare del Cinquecento la delicata pala lignea del venerato patrono era sconfitta dal trascorrere del tempo e il patriarca Francesco Barbaro, al termine della sua visita pastorale del 1594, esortava vigorosamente il clero locale a provvedere la cappella di un nuovo altare. L’energico sprone aveva successo e nel 1598 si commissionava a Ursino Simotino e suo figlio Giovanni un altare ligneo, impreziosito da diecimila foglie d’oro e smalti a vivaci colori; nonostante le attente cure manutentive, anche questo manufatto agli inizi del XVIII secolo era in condizioni critiche, che peggioravano sino a rendere indilazionabile la sua demolizione, effettuata nel 1828. L’erezione del nuovo altare era continuamente rimandata, per tutto l’Ottocento nella cappella si trovava solo un’edicola di modesta fattura, con una statua lignea di san Donato. Si doveva attendere addirittura un secolo, sino al 1928 per vederlo sorgere, dopo un susseguirsi ininterrotto di difficoltà assortite, su progetto dal cividalese Leone Morandini che lo concepiva nella semplicità delle forme attuali; non troverà attuazione il rivestimento delle pareti con stalli lignei e le altre opere previste per completare il decoro della cappella.

La pala S. Donato fra i martiri Silvano, Romolo, Venusto, Ermogene, collocata sull’altare nel 1932, è del pittore cividalese Luigi Bront (1891-1978).

 

La pala dell'Annunciazione di Pomponio Amalteo

Sulla parete destra sono visibili tracce di motivi affrescati, di fronte spicca il grande quadro dell’Annunciazione, eseguito nel 1546 da Pomponio Amalteo (1505-1588).

La pala dell’Annunciazione fu creata da Pomponio Amalteo (1505-1588) nel 1546 per il monastero domenicano della Cella, ove era racchiuso in una fastosa cornice intagliata; dopo la sua soppressione napoleonica del 1806 l’opera doveva essere trasportata a Parigi, ma per il ritardo nella sua consegna fu concesso al Capitolo di riporre la pala nel duomo, ove è rimasta. L’opera ricalca nell’impianto il medesimo soggetto dipinto per la chiesa di Santa Maria degli Angeli a Murano dal Pordenone, del quale l’Amalteo era il genero; anche il nugolo di vivaci putti che scendono, nella parte sinistra, è di ispirazione pordenoniana. Il cromatismo è imperniato su tonalità vivaci, brillanti e l’artista svela la sua perizia anche nella resa di minuti particolari descrittivi.

Il gonfalone di Giovanni da Udine

Sotto il coro è appeso, incorniciato, quanto rimane di un gonfalone dipinto su seta nel 1539 da Giovanni da Udine detto il Ricamatore, che a tenui colori vi rappresentò l’Annunciazione. Di questa artista, allievo di Raffaello, oltre alla sua produzione murale sono note poche altre opere, tra esse vi sono questi frammenti, con figure di notevole delicatezza pittorica.

L'altare del Crocifisso

L’altare del Crocifisso racchiude la tela Crocifisso tra i Santi Gregorio Magno, Gerolamo, Carlo Borromeo, Andrea Apostolo e Valentino, opera del 1619 di Antonio Grimani, pittore veneziano. La figura del Cristo domina l’intera composizione dal buon impianto, riportata ai pregevoli toni cromatici originali nell’ultimo restauro. Un tempo era dedicato a san Girolamo – che si vede raffigurato genuflesso nel paliotto –, con tale titolo veniva consacrato nel 1594 dal patriarca Francesco Barbaro; la precedente struttura era lignea e, come per gli altri altari laterali, il suo rinnovamento è avvenuto in un lungo arco di tempo, infatti la nuova mensa in marmo era collocata nel 1800, ma al suo completamento si assisteva solo 17 anni dopo, con lavoro di Giacomo Pischiutti.

Altare della Madonna

L’altro altare è quello della Madonna, con la pala del pittore dalmata Matteo Ponzone, che nel 1617 vi dipinse con figure corpose e buona impaginazione la Madonna in trono con Bambino tra i santi Giovanni Ev., Bartolomeo Apostolo, Marcello Papa (o san Nicola di Bari) e Zenone Vescovo. La presenza di tale schiera di santi è dovuta al fatto che, nel tempo, su tale altare confluivano numerose cappelle e officiature di messe.

Il rifacimento dell’altare più antico adorno di varie statue e con colonne grandi scanellate e tutte indorate, era deliberato dai canonici nel 1796, disponendo di una pingue offerta avanzata a tale scopo da un loro confratello; traversie di varia natura, compresa la difficoltà di approvvigionamento del marmo di qualità adeguata, consentivano di ultimarlo solo nel 1816; nel paliotto della mensa è scolpito un bassorilievo della Madonna.

Sulla mensa è collocata una raffigurazione della Pietà, chiamata Vesperbild, cioè ‘immagine della sera’, in quanto davanti ad essa si pregava nelle ore del vespero. La statua – a lungo creduta in arenaria, poi si è appurato trattarsi di pietra artificiale dipinta – è strutturata con la Madonna seduta che sorregge il corpo inanimato del Cristo, dalle braccia abbandonate lungo i fianchi e che volge il viso sofferente verso chi lo guarda. L’esemplare cividalese appartiene al gruppo degli otto Vesperbilder prodotti in ambito tedesco ancora conservati in Friuli ed è datato al primo decennio del Quattrocento.

La nicchia e i ritratti rinascimentali

Il nicchione che si apre nella navata destra fu realizzato nel 1645 per accogliere il battistero di Callisto. Dopo la sua ricomposizione nell’erigendo Museo cristiano, allestito nel 1946, vi è rimasto solo un seicentesco fonte battesimale in marmo, con piede e base triangolare e sovrastante costruzione rotonda con nicchie e colonne, in legno policromo.

L’intervento settecentesco di chiusura della navata centrale con l’attuale volta ha comportato la sottrazione alla vista di un particolare ciclo di affreschi, stesi nello spazio tra le capriate lignee. Si tratta di una teoria di 34 personaggi, ritratti a mezzobusto, maschili e femminili quali ecclesiastici, sovrani, dame e nobiluomini. La loro identità, l’autore, la precisa datazione – sono comunque riportabili al Rinascimento – e la genesi attendono ancora di essere individuati e chiariti. Un quarantennio fa alcune figure affrescate sono state staccate dalla loro collocazione originale per compiere degli indispensabili lavori statici sulla struttura; quattro di esse sono state recentemente esposte ai lati del nicchione del battistero, consentendone la loro ravvicinata visione.

La sacrestia

L'organo

Sopra l’ingresso alla sacrestia si trova il maestoso organo maggiore, realizzato da Beniamino Zanin di Camino al Tagliamento nel 1933, dalla facciata tripartita piramidale di canne di zinco a vista, integralmente restaurato nel 2010. Il coro ligneo è opera settecentesca di Mattia Deganutti, nel tempo sottoposto a modifiche che ne hanno mortificato la decorazione barocca e ridimensionato la struttura.

La sacrestia è composta da tre ambienti, che si susseguono d’infilata. La prima sala, a lungo usata come coro invernale dagli ecclesiastici, ha le pareti rivestite da stipi e stalli lignei dei canonici che, in gran numero un tempo, componevano il Capitolo. Ha un altare marmoreo realizzato dal palmarino Carlo Picco nel 1760-1761, dedicato a sant’Antonio, il cui titolo fu trasferito dall’omonima, antica chiesetta, situata appresso al duomo e demolita nel 1631 per innalzare il nuovo campanile. Accoglie S. Antonio Abate che adora la Vergine col Bambino, una delle migliori opere del veneziano Giuseppe Diziani (1732-1803), dai piacevoli colori di tono metallico, sapiente strutturazione, figure composte ed eleganti, nonchè vivace attenzione al paesaggio; sinora di incerta datazione, in base a nuovi documenti d’archivio è riportabile al 1764.

Sopra la porta d’accesso si trova un busto di papa Pio II, donato nel 1862 al locale Capitolo da un sodalizio triestino. Il pavimento, in marmo veronese bianco e rosso, è parte di quello tolto dalla navata nel 1898.

Nel locale successivo s'impongono all’attenzione due pregevoli mobili del maestro lignario cividalese Mattia Deganutti (1712-1794), il più abile tra gli intagliatori suoi contemporanei.

Questa coppia di armadi, realizzati tra il 1749 e il 1751 da Matteo Deganutti, rappresenta il segmento superstite più antico della sua vasta produzione, come si può ben vedere agli esordi improntata a una severa monumentalità, ma in breve evoluta nella fantasiosa plasticità del tardo barocco e rococò; il suo potenziale virtuosismo qui è individuabile, in forma embrionale, particolarmente nel fastigio apicale dei mobili.

Sul soffitto è affrescato il Trionfo della Fede con i quattro Evangelisti, opera piuttosto modesta del 1771 di Giuseppe Diziani. Alle pareti, in corrispondenza degli inginocchiatoi lignei, sono appese quattro tele ovali, di autore ignoto, che raffigurano San Giuseppe col Bambino, San Pietro, San Paolo e Madonna con Bambino.

 

L'ultimo ambiente, detto ‘Sala del Capitolo’, è decorato su pareti e soffitto da prospettive, stese alla fine del XVIII secolo da Giuseppe Mattioni, allievo di Francesco Chiarottini; questi affreschi sono stati restaurati nel 2002.

In concomitanza con le opere di ristrutturazione di questi locali (2001-2002), sono stati praticati dei saggi di scavo, dai quali è emerso che, nel lungo periodo, in quest’area si sono alternate prolungate frequentazioni e momenti di abbandono. Qui era molto sviluppata la funzione cimiteriale dal VI al XIV secolo circa, ma protratta per l’uso come ossario ancora sino al Seicento.

La corte dei canonici

Vi si accede dal cancello posto sul retro del campanile o, dall’interno del duomo, varcando la porta che si apre nella navata destra. Nel 1954 in quest’area sono stati individuati i resti di un chiostro medievale, databile all’XI-XIII secolo, messo in piena evidenza con successivi lavori del 1990 e ulteriormente valorizzato in tempi recenti.

Dell’antico porticato sono visibili le eleganti trifore, spartite da colonnine con capitelli a gruccia, che ancora poggiano sul rialzo originale formato da pietre squadrate. In questo insieme di edifici i canonici conducevano vita in comune, ai vari ambienti – tra cui un refettorio che sappiamo realizzato nel 1344, un dormitorio e uno scriptorium – si accedeva tramite un claustrum, al quale appartengono questi resti.

Approfondimento

Sotto l’alto portico settecentesco sono collocate le lastre tombali, un tempo pavimentali, dei seguenti personaggi (da sinistra): Leonardo Quagliani (1590), Sebastiano Tussone (1591), Antonio Azzarino (1591), Vincenzo Osmiani (1592), GioBatta Del Ponte (1760) e, senza data, Jacopo Buiatti. La lapide centrale con la lunga iscrizione – anch’essa originariamente affissa all’interno – riguarda una complessa contesa di precedenza insorta nel 1598 tra il Capitolo di Udine e quello di Cividale, risolta dopo una lunghissima causa a favore di quest’ultimo.