Duomo di Santa Maria Maggiore di Spilimbergo

Spilimbergo

Duomo di Santa Maria Maggiore di Spilimbergo

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Il borgo è citato in un documento del 1120, con il quale Enrico II di Eppenstein infeuda Cordenons, Pordenone, Rogogna e Spilimbergo, al marchese di Steyr (Stiria). Dominava vasti pianori dotati di buone acque, orizzonti collinari e piane fluviali, su un facile guado del Tagliamento, favorevole ai commerci e alle gabelle. Prima del 1183 è costituito un feudo con castello “di abitanza”, con ampliamento territoriale dei “de Cosa” che prendono il nome di “de Spengenberch”. A Spilimbergo venne allora insediata una famiglia di ministeriali carinziani (dei Treffen) e il primo Walterpertoldo è testimone in un atto di donazione del 16 ottobre 1183. Da lì una continua ascesa di rango della nobile famiglia, con acquisizioni di beni, avvocazie e giurisdizioni, mercati e traghetti sul Tagliamento. Sostennero da protagonisti brevi guerre feudali. Alcuni parteciparono a crociate, si distinsero in tornei a Venezia, condussero polizia e magistratura non solo in Friuli, altri furono esori e contestati dal popolo. 


Le origini di Spilimbergo sembrano di un luogo rustico nato attorno ad un castello primitivo, di cui non c’è traccia. 


La comunità ecclesiale dipendeva dalla pieve più antica san Pietro di Travesio. 

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Già all’esterno si apprezza l’imponenza dell’edificio, lungo m. 54,40, largo m. 22, alto m. 20, basilicale con absidi a pianta quadra. 


Appare evidente come la nostra costruzione sia stata disegnata sul posto via via definendo, per importanza voluta, cripta, presbiterio e navate, e sia stata condizionata dal declivio, dalla antica chiesa di Santa Cecilia col cimitero adiacente e col suo piccolo campanile, dalla torre sulle mura, quali emergenze verticali utili a segnare percettivamente i volumi. 


Nelle geometrie dell’edifico si riscontrano in pianta misure particolari: 3-5-8-13-21-34 metri. Il rapporto tra tali numeri, ciascuno somma dei due precedenti definisce la sezione aurea e la costante di Fidia, che già nell’antichità esprimeva in architettura e scultura le migliori proporzioni armoniche tra le parti. La lunghezza dell’abside e delle cappelle laterali sono di 5-8-5 metri; l’aula inscrive un rettangolo aureo di 21x34 metri; il presbiterio avanzato misurava 8x8 metri con un’altezza di 13, accettando che nel 1610 sia stata abbassata la copertura lignea al centro e alzata nelle navate laterali. 

L'edificio

La costruzione fu avviata il 4 ottobre 1284, anno in cui Walterpertoldo II di Spilimbergo ottiene il permesso del cugino Fulcherio vescovo di Concordia di costruire una chiesa dedicata a Maria. Fu appoggiata alla cinta muraria a sud della platea antistante il castello, tenendo conto degli avvallamenti, elevando il campanile sopra una torre difensiva preesistente, mentre una seconda torre, rimasta fino al 1619 presso l’ingresso di ponente, si cita come vincolo per la lunghezza della costruzione.

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Il campanile è sicura spalla di ancoraggio tra il presbiterio e la navata e, pur mancando dell’originaria pigna sulla sommità, crollata per un fulmine nel 1545, chiude elegantemente il fondale visivo sopra la doppia teoria di archetti esterni e santi affrescati, oggi pressoché perduti. 


La cella campanaria venne ricostruita in età umanistica, ma è stata restaurata e definita nel 1859. 


Una finestra sul lato nord, chiusa nel 1905, dava luce all’organo della navata centrale. 

Nel 1434 i camerari registrarono che l’edificio risulta rimesso a nuovo, quanto a copertura e campanile, e con “un’affrescatura ben visibile sulle pareti”: esterna relativa ai santi negli archetti, o interna riferita ai fregi e alle cornici sugli archi e sotto i cordoli.

Il duomo fu consacrato il 2 dicembre del 1435. Tuttavia, già nel 1339 i fratelli Bartolomeo ed Enrico di Spilimbergo, con un atto solenne, in duomo ricevono dal vescovo di Concordia l’investitura di una terza parte del castello di Spilimbergo e del territorio di Sequals.

Nel 1342 sappiamo che la fabbrica era ormai conclusa. Nel 1358 è compiuto l’altare maggiore con il ciclo di affreschi: il 26 dicembre dello stesso 1358 viene celebrata la prima messa. Poi, nel 1410 da chiesa “privata” dei nobili Spilimbergo diviene parrocchiale. Del resto era stata edificata una cum comuni, assieme alla comunità.

La discontinuità di partiture sulla facciata nord sembrano dovute a riferimenti culturali di diversi costruttori. La cortina cieca, divisa in due fasce dallo spiovente della navata, con la serie di archetti a segnare le due linee di gronda, è mossa da tre elementi: la cappella di San Michele, già citata nel 1315, un’absidiola d’altare e il portale.

Dalla cappella al portale aperto al centro parete, si ripetono le lesene cieche presenti nell’esterno del presbiterio, poi, dopo la sontuosa porta, la parete continua senza aggetti.

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Verso il centro della facciata, accanto al gigantesco affresco di San Cristoforo, è inserito il portale in pietra che nobilita la costruzione, eseguito nel 1376 da Zenone da Campione, che sta nella tradizione degli scultori-scalpellini lombardi illuminata da Antelami. 


Con le armi comitali scolpite a rilievo accanto ai simboli principali della fede cristiana, l’Agnello, l’Annunciazione, il Battista e l’Incoronazione della Vergine. Il portale manifesta il prestigio dei signori di Spilimbergo. 


Nella lunetta al centro, Cristo in abiti imperiali incorona sua Madre, la Vergine Maria. Due angeli musicanti celebrano ritualmente la solennità del gesto. 

Nell’architrave Cristo appare già risorto come l’agnello pasquale cui fa riferimento la vicina figura del Battista. A destra e sinistra l’arcangelo Gabriele e la Madonna annunziata. 


Prima di essere nell’uso comune porta di tutti i fedeli, era la “porta dei signori”, per poi diventare quella “degli uomini”, mentre le donne entravano da quella ovest. 

Nel prospetto ovest si nota la diversa dimensione della navata destra rispetto alla sinistra e che il vano d’ingresso, pur in asse con la navata centrale, risulta spostato a destra della mediana.

Il portale è semplice ad arco acuto, con breve strombatura, costruito in blocchi di arenaria, una pietra debole cosicché gli intagli dei capitelli e dell’architrave sono ormai quasi illeggibili. Nella lunetta un affresco malconcio rappresenta l’Incoronazione della Vergine in gloria tra i santi e venerata dai signori e dunque segna ancora la dedizione a Santa Maria.

L’allineamento del presbiterio non è perpendicolare alle navate, ma piega a sinistra, o per definire un transetto evitando il campanile la cui larghezza è circa pari alla sua profondità, o per un riferimento al capo reclinato di Gesù sulla croce.

Per attutire l’effetto visivo i pilastri definiscono una navata centrale obliqua nell’aula basilicale, con un leggero spostamento degli assi alla base che scompare in alto sui cordoli del tetto, così offrono a chi entra una visione più frontale dell’abside e lasciavano spazio a sinistra per il fonte battesimale.

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Il tetto a capriate che non incombe e suggerisce continuità tra le navate, più volte rifatto e ingentilito dalle pianelle decorate nel 1929, come si legge su molte d’esse. Le false travi coprono i tiranti in ferro aggiunti per il consolidamento, parte nel 1858 (abside), parte nel 1988 (quelli longitudinali) e altri ancora nel 1903 (quelli trasversali), in sostituzione delle travature originali di catena “alla veneziana”. 


Tutta la struttura dell’edificio, salvata dal terremoto del 1976 grazie a poderosi puntellamenti, è ora cucita con ferro e cemento. 

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Sette “rosoni” presentano un valore simbolico e architettonico che giustifica la natura di vera facciata della chiesa. Rimandano, infatti, ai sette occhi dell’agnello della visione apocalittica: «Vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Apocalisse, 5,6). Mostrano dunque la pienezza dello Spirito in azione. 


A quanto pare sono un unicum nell’architettura religiosa; semplice, ma straordinario e luminoso rimando al significato del tempio stesso come rappresentazione dell’Agnello di Dio ritto e potente vincitore: incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. 

L’interno: architettura per la meraviglia

Entrando dalla porta ovest, la vista corre lungo la fascia centrale del pavimento in seminato, realizzato nel 1858, rimosse le tavelle in cotto e numerando le varie tombe insistenti, e si alza sul grande Cristo della parete di fondo del presbiterio: è l’affresco della Crocifissione più esteso della diocesi di Concordia-Pordenone. Lo sguardo può tornare indietro scorrendo il vuoto scandito dai grandi archi a sesto acuto senza percepire la divisione in navate, e può abbracciare un grande spazio con una sensazione straordinaria di coinvolgente equilibrio.

L’interno, ben illuminato lungo tutto le scorrere del giorno dalle alte finestrelle della navata centrale, chiuse nel 1858 e riaperte dopo i restauri del 1929, è sottolineato da leggiadri decori pittorici a cornice, articolato da sei pilastri presidiati qua e là da santi e Madonne affrescati nel Trecento e Quattrocento, mentre due pilastri sono addossati al presbiterio e altri due alla porta d’ingresso. In una pianta del 1858 anche i due pilastri quadri appaiono quadrilobati, probabilmente per aiutare al sostegno dell’organo, ma affreschi quattrocenteschi dimostrano la loro primitiva forma quadra (il presbiterio infatti occupava tutta la prima campata: una greca sul pavimento ne segna ancora il limite). L’incompiutezza dei dipinti fa pensare alla collocazione originaria, nella navata centrale proprio sul fianco di questi pilastri, dei due amboni in pietra del 1487 di Giovanni Antonio Pilacorte da Carona, con gli angeli in aggetto a testa ruotata verso l’assemblea.

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Il confronto della pianta del duomo di Spilimbergo con quella dell’abbazia cistercense di Follina, risalente al 1260, consente un evidente riferimento architettonico. Ma certo sono possibili altri riscontri formali e figurativi: con Santa Maria Assunta di Torcello per la struttura leggera e luminosa ed i tiranti in legno, con San Domenico a Bologna per le regole domenicane riguardo le absidi quadre coperte con volte a vela e la raccomandata sobrietà dell’aula. 


Risultano poi analogie in regione, nel duomo di Udine, trasformato appena dopo il 1236 a tre navate e tre campate, e nel primitivo duomo di Pordenone consacrato nel 1278 ed ancora con le chiese di San Francesco a Udine e San Pietro a Cividale, dove finestre strette e alte verticalizzano lo spazio. 

Un duomo che affascina e coinvolge

Sulle pareti perimetrali gli altari di pietra lavorata e le superfici ora candide, ora abitate da sante figure in riquadri d’affresco, segnano una successione di consuetudini devozionali e di sensibilità artistiche. Come appare oggi, dopo i recenti interventi di pulizia e restauro e con l’illuminazione rifatta nel 2005 che ci consente di ammirarlo con privilegio sul passato, il duomo affascina e coinvolge.

Un tempo entrando in chiesa ci si trovava di fronte, quasi addossato alla parete di fondo del presbiterio, l’altar maggiore. Il primo citato è quello del 1358; ne fu costruito un altro per la consacrazione del 1435; nel 1450 se ne ebbe uno abbellito poi con un’ancona di Andrea Bellunello (1479-1480), oggi perduta. Un coinvolgimento per disegni e proposte di Gasparo Narvesa, pittore e doratore, portò nel 1619 alla consacrazione di un nuovo altare posto sul bordo del presbiterio, rimuovendo le balaustre in pietra. Nel 1674 ne venne realizzato un altro con intarsi in marmo di Alessandro Tremignon (oggi nella chiesa di Tualis in Carnia), sostituito nel 1930 con quello ora posto nella cappella di sinistra.

Le statue dei padri della Chiesa sulle balaustre di pietra che chiudono le due cappelle laterali, Girolamo, Ambrogio, Agostino e Gregorio, datate 1495 e forse del Pilacorte, presidiano il presbiterio dal vano ecclesiale.

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Dopo il 1475 davanti al presbiterio fu installato tra due muri il coro ligneo riccamente intarsiato da Marco Cozzi da Vicenza, che richiama a modello quello da lui realizzato per a Venezia per la basilica dei Frari. Dopo il 1584 gli stalli furono posti in abside, coprendo, ma così anche proteggendola, la fascia inferiore degli affreschi. Nel 1930 furono spostati nella navata a fianco dell’ingresso, mentre dal 1959 il coro è stato spostato nella chiesa dei Santi Giuseppe e Pantaleone, in centro città.

La navata meridionale

In alto a destra l’affresco della Fuga in Egitto del XVI secolo, attribuito prima al Calderari poi a Girolamo Stefanelli, ben conservato e dai toni piacevolissimi, interpella enigmatico l’attenzione.

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Vi si trovano riferimenti a Vangeli apocrifi e alla simbologia gnostica, utilizzata anche dalla prima comunità cristiana di Aquileia nei mosaici della basilica: la palma che si piega a nutrire con i datteri la Sacra Famiglia; la tartaruga, che indica le “tenebre” e perciò il “male”; l’unicorno, che simboleggia la castità; il cervo che con lo zoccolo fa uscire il serpente (il dragone) e lo calpesta, e perciò rappresenta Gesù Cristo. È una Fuga in Egitto messa in primo piano rispetto alle insidie allegoriche riviste dall’Apocalisse, con l’angelo che indica una Gerusalemme celeste e riferimenti di un castello turrito facilmente familiari ai viandanti dell’epoca. 

Muovendosi nella navata seguiamo un percorso mariano, partendo da un quadro di Gasparo Narvesa rappresentante la Pentecoste, con l’eccezione dell’altare detto di San Francesco per la tipica rappresentazione del braccio del santo intrecciato con quello di Cristo.

La cornice in pietra, seicentesca di foggia pilacortiana, presenta curiose testine sui capitelli e contiene la pala di San Bernardino in gloria, santa Lucia tra i santi Caterina, Francesco, Antonio da Padova e Apollonia, di Jacopo Palma il giovane del 1622.

Più avanti la cappella della Madonna del Carmine, originalmente intitolata alla Purificazione della Madonna, ospitava la pala di Giovanni Martini raffigurante la Presentazione di Gesù al tempio (1503 circa), ora nella successiva cappella del Rosario, mentre un altare settecentesco del Carmine, in legno, addossato al pilastro antistante fu demolito nel 1905 e accorpato.

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È uno dei capolavori della scultura cinquecentesca in Friuli: ampliata in profondità nel 1905, con la balaustra avanzata a creare rispetto e decoro ricca di bassorilievi raffinati e sormontata da bellissimi angeli, con un Cristo passo sulla sommità dell’arco a tutto sesto, presidiato ai lati da due angeli con le ali dipinte in affresco nella nicchia. L’opera fu eseguita nel 1498 da Pilacorte. 

Appena dopo in parete la tela di Gasparo Narvesa della fine del XVI secolo mostra il Cristo crocifisso con la Madonna e San Giovanni, eseguita pare per la chiesa dei Santi Giuseppe e Pantaleone.

Proseguendo, nello scanso di una vecchia porta murata che dava sul cortiletto e probabile iniziale accesso di servizio, ha trovato posto in anni recenti una grande icona della Madonna Madre di Dio.

Prima del campanile che esce obliquamente dalla linea di parete, si apre la cappella del Rosario, già di Sant’Elena. Contiene la splendida tavola con distesi canoni cinquecenteschi e cornice dorata di Giovanni Martini (il paliotto sotto l’altare è stato trafugato). Nel 1627 fu eseguito il prezioso fondale: il lavoro di intaglio risulta di Giacomo Onesti, mentre Gasparo Narvesa dipinse magistralmente in 15 tavole i “misteri”: i Dolorosi nel bassorilievo di un rosaio spinoso, i Gaudiosi tra i boccioli di rosa, i Gloriosi fra un ricco intreccio di rose fiorite; sopra in lunetta la Madonna del Rosario e San Domenico

Sugli stipiti in pietra i principali stemmi nobiliari sono citati a compendio di titoli e donazioni del secondo casato di Spilimbergo, di Solimbergo, di Zuccola, di Trussio, di Atan di Salvarolo.

Sul muro una cornice in affresco racconta il diverso assetto primitivo della cappella e l’iniziale architettura di un rosone sopra l’arco a tutto sesto di un’absidiola d’altare, dove stava la pala di Sant’Elena collocata in cripta nel 1905, quando fu rifatta la cappella murando il rosone e riducendo l’ingresso, su disegno di Alessandro Cavedalis.

Sul pilastro di fronte un piccolo affresco racconta la parabola della Guarigione del cieco, parte di più vasta iconografia proseguente lungo il demolito muro cui si appoggiava il coro ligneo. Vi si è cimentato Zuan (Giovanni) de’ Cramariis, miniatore raffinato nel 1494-1507 dei sei grandi libri corali in carta pecora, cognato di Pellegrino da San Daniele, era doratore, pittore e miniatore udinese, aveva lavorato alcuni anni ai ricchi codici miniati di Siena.

La cappella di destra

In angolo della navata destra dalla fine del XIV secolo un enorme San Cristoforo scruta il popolo con grandi occhi ammonitori, ricordandoci le preoccupazioni del passato per il guado e il “passo di barca” del fiume Tagliamento.

La gradinata continua sottolinea elegantemente la zona presbiteriale ed unisce le navate con l’invito a salire.

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Al centro della cappella di destra, dopo i lavori post terremoto del 1976, è stato collocato il fonte battesimale, scultura piacevole del Pilacorte, eseguita nel 1492, con le particolari sfingi alate alla base. 

Poiché il battesimo è l’atto di ingresso nella comunità cristiana, come da tradizione il fonte era prima posto a sinistra dell’entrata

Sulla destra, dopo un santo vescovo o Sant’Agostino affrescato nel Trecento, il timpano alto della sacristia ospita la statua di San Biagio del 1489, attribuibile al Pilacorte.

Sulla stessa parete è collocata una grande tela con il Battesimo di Cristo di anonimo pittore di scuola veneta (con riferimenti a Veronese e Tintoretto) della seconda metà del Cinquecento, originariamente per la chiesa di San Giovanni dei Battuti o per un altare di San Giovanni già eretto e dotato nel 1368.

Sopra un grande lunotto con l’Incoronazione della Vergine e anime purganti, di fronte all’altro con l’Annunciazione, tele settecentesche di Giuseppe Buzzi, probabilmente per le pareti dell’abside.

Accanto alla finestra, affreschi malridotti con Sant’Elena.

Gli affreschi della cappella maggiore

Il passaggio per l’abside, conseguenza del riassetto funzionale alla fine del Cinquecento, ha bucato l’affresco più antico della chiesa, un Re Salomone riscoperto sotto la scena del Campo di Oloferne, taccata e collocata lungo la navata meridionale.

Nel 1858 gli affreschi vennero imbiancati e rimasero coperti fino al 1929-1930, quando furono rimossi gli stalli del coro ligneo e scrostate le pareti.

Questi affreschi appaiono influenzati chiaramente da Vitale da Bologna, che operò nel duomo di Udine nel 1348 e da Tommaso da Modena, che al tempo lavorava a Treviso. Le sottolineature cromatiche delle linee architettoniche, i colori delle storie sacra affrescate sotto una volta celeste, dove grandi medaglioni con gli Evangelisti insieme a Dottori della Chiesa, rappresentano la parola di Dio codificata dalla Tradizione, e sotto la tenda della primitiva Incoronazione della Vergine, avvolgono comunque in un’avvertita solennità con una luce calda e suggestiva.

La scelta dei soggetti oltre che costituire illustrazione dei contenuti di fede, poteva anche chiosare avvenimenti di storia civile, per cui la Cavalcata di Tobia poteva ricordare il corteo dell’imperatrice Anna, sposa di Carlo IV, che sostò a Spilimbergo nel 1355, accompagnata dal patriarca di Aquileia Nicolò di Lussemburgo suo cognato e diretta a Roma per l’incoronazione imperiale, ma non è priva di ragione teologica. Vale pensare che le scene del Nuovo Testamento completano quelle del Vecchio, significando e non rappresentando soltanto.

 

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Nel primo registro in alto la pienezza dell’umanità in Gesù nato da Maria, la Natività, riscontra la Creazione di Eva, anzi dell’uomo maschio e femmina; mentre l’Adorazione dei pastori ricuce umilmente lo strappo che ha determinato la Cacciata dal paradiso terrestre.

Nel secondo registro, la Presentazione di Gesù al tempio è la festa della “Purificazione” dal peccato originale che l’uomo, condannato al Lavoro della terra, si porta dietro. Ma Dio che si coinvolge nella storia, sceglie chi non ha nulla, elegge suo popolo Israele che era schiavo un po’ come Gesù fuggiasco in Egitto, ascolta il misero e gradisce le offerte di Abele il buono che vive di natura e provvidenza. Invece Caino uccide Abele perché costruisce città “da solo”, è incapace di accettare la diversità nella fratellanza, ha perso il dialogo fiducioso con Dio e fa trionfare la violenza. Ed è arbitro del potere e crudele esasperazione della violenza quella ricordata nella Strage degli innocenti, mentre Lamec che uccide Caino mostra le basi di una società corrotta lontana da Dio, ma poi scoprendo la sua interiorità confessa alle donne (le due mogli) il suo crimine e prende coscienza del perdono divino.

Nel terzo registro Gesù fra i dottori spiega le scritture, ma doveva parlare delle «cose del Padre mio». Anche Noè “rese un culto in verità” e camminava con Dio. L’uomo che esce dall’Arca di Noè si trova a ricominciare tutto per il bene: per la prima volta invoca il nome di Dio e scopre la sua vocazione ad essere divinizzato. Nelle Nozze di Cana l’intervento fiducioso di Maria salva la situazione, come l’intervento di Dio salva nel Sacrificio di Isacco per la piena fiducia di Abramo. Quanto alla Cacciata dei mercanti dal tempio, la fede e la sacralità non sono oggetto di mercato, e infatti nello spazio interiore, simile a quello interminabile per gli Ebrei nel deserto, che si chiarisce la Verità e l’uomo con l’ascolto della voce interiore può diventare tempio di Dio, senza tentazioni idolatre.

Nel quarto registro, la Trasfigurazione, come glorioso prologo della Gerusalemme Celeste, abbatte le barriere del tempo, come le trombe di Giosuè nella Presa di Gerico abbattono le mura della prima città della terra promessa. Nel festoso Ingresso di Gesù in Gerusalemme è prefigurato il corteo glorioso della fine dei tempi, con la vittoria finale del primogenito annunciata dall’Apocalisse, come Davide vince Golia. Nella Gerusalemme terrena è anche la tribolazione, l’angoscia di Gesù nel Getsemani, il calice che non può “passare”, e Dio, pur avvilito e piangente come Davide per la Morte di Assalonne suo figlio, deve lasciare che l’iniquità vinca apparentemente; è però ancora la preghiera, il rapporto buono con Dio, che consente all’Amore di trionfare, mentre il male dell’uomo ricade sull’uomo.

Nell’ultimo registro in basso, la scena della Cattura di Gesù mostra la tentazione di Pietro di rispondere con la violenza, mette in luce l’insensata strumentalizzazione anche del gesto d’amore quel è il bacio; ma proprio l’amore prevale nel Ritorno di Tobia e Sara che, “giusti”, hanno una missione salvifica: Tobia guarisce il padre (con il fiele del pesce, simbolo di Cristo) dalla cecità; Sara “salva” l’onore del padre e della famiglia. Nella Flagellazione è violata la dignità e l’innocenza di Gesù, artatamente viene processato, ricattato, schernito, come i vecchioni ricattano e mandano a processo la fedele Susanna al bagno che sarà salvata dal profeta Daniele. Un Gesù dolce e compassionevole sotto un cielo pieno di armi, viene spinto nella Salita al Calvario, e sono le donne in primo piano a seguire nel dolore, come saranno le donne prime a vederlo risorto. È infatti per il sì di una donna a Dio, la Madonna, che si compie la storia della salvezza. Anche la bellissima Giuditta al campo di Oloferne espone la sua dignità/vita per il suo popolo, e vince sullo strapotere del comandante supremo babilonese. Rimane tre giorni nel campo nemico, poi è vittoriosa attraverso la “debolezza” (che è tema dell’incarnazione e della croce), per cui sono vittoriosi i poveri e i deboli, e salva con l’arma della “bellezza” che riesce ad imprigionare ogni potenza orgogliosa. Così prima ancora del tempo di Maria, Dio ha «esaltato gli umili e disperso i superbi nell’intento del loro cuore»

È dunque più che giustificato che attorno alla scena centrale della Crocifissione trovino posto d’onore l’Incoronazione della Vergine e l’Annunciazione.

All’incrocio delle vele, pur se in un cerchio di ridotte dimensioni, quale chiave di volta è dipinto l’Agnello mistico, col vessillo della vittoria sulla morte e sul male: è l’emblema del Risorto, al centro del presbiterio, al vertice, sopra, nei cieli. Sotto, nei medaglioni trilobati, in basso sono dipinti gli evangelisti con i loro simboli, e quattro dottori della Chiesa, in alto, entro cerchi sotto le braccia spalancate di un arcangelo, stavano: Cristo evangelizzatore con un libro aperto, Cristo pantocrator, una bella Madonna col Bambino che srotola la “Parola”, ma verso l’aula Dio Padre, il Figlio giovanetto visto di scorcio, la colomba dello Spirito Santo: cioè la Trinità, in tre cerchi come speculari dei tre “rosoni” della facciata di ponente, dove al centro del più alto c’è un Cristo risorto, con scritta: PLENI SUNT COELI ET TERRA GLORIA TUA.

Succede anche che, proprio al tramonto, nel momento più buio della memoria della morte in croce, la Resurrezione illumini la Crocefissione affrescata a piena parete nel fondo del presbiterio. Straordinario elemento-idea di questa architettura medievale che porta la meditazione a sentire la speranza.

La cappella di sinistra

Sul pilastro di sinistra della cappella maggiore, un’iscrizione ricorda una grande celebrazione durante la munifica ospitalità fatta dai signori di Spilimbergo a Carlo V, che il 27 ottobre 1532, dopo aver assistito alla messa, creò cavalieri 8 membri della famiglia comitale.

Nella cappella del Santissimo Sacramento il tabernacolo sopra l’altare del 1930 custodisce l’Eucarestia. Perciò vi è stato collocato sopra il grande Crocifisso ligneo cinquecentesco, che mostra tutta la sua umanità dolente.

La parere di destra è affrescata.

 

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Nella parte centrale della cornice inferiore compare a grandi lettere l’iscrizione MCCCL MENSE JUNII OC OPUS FECIT FIERI PAULUS. Questo Paolo che “fece eseguire quest’opera nel mese di giugno del 1350” è identificato con un gastaldo dei signori di Spilimbergo, ancora tra i camerari della chiesa nell’iscrizione del 1376 sul portale nord.

In alto vi è il Cristo Giudice in mandorla, con attorno la corte angelica e, ai lati, il sole e la luna; nella zona mediana, a sinistra al di sopra della capanna, compare l’Annuncio ai pastori; a destra inizia il corteo dei Magi, che prosegue in primo piano verso un trono marmoreo su cui doveva sedere la Madonna con il Figlio, figure quasi completamente scomparse. Sotto è rappresentato San Giacomo e l’impiccato, mentre sulla parete dietro l’altare è dipinto il Martirio di san Sebastiano.

Sulla parete di sinistra due quadri seicenteschi, il Sacrificio di Isacco e Adamo ed Eva che piangono Abele, mentre sotto si aprono due porte, una antica ad arco trilobo inflesso ed una funzionale, per passare nella cappella di San Michele.

La cappella di San Michele

In questa si trova in affresco un’ampia raffigurazione dell’Arcangelo Michele vittorioso sul demonio, di un raffinato artista dei primi del Quattrocento.

Sotto l’affresco, in nicchia è posta una tela con il Martirio di due sante, opera ultima ed incompiuta di Gasparo Narvesa.

Di fronte, sopra l’ingresso dall’esterno, un’altra tela con l’Arcangelo Michele del veronese Giulio del Moro, di fine XVI secolo.

Sulla parete di sinistra sono state collocate le due lunette dipinte che chiudevano l’arco a fianco dell’organo, con paggi reggistemma o armigeri, normalmente attribuite al pittore Antonio de Sacchis detto il Pordenone o alla sua bottega.

Arte e musica per la celebrazione

Nella navata di sinistra, dopo l’altare di Pilacorte (1503?), ora con la statua del Sacro Cuore, si trova la grande tela del Pordenone con l’Assunzione di Maria che costituiva l’anta chiusa dell’organo.

Di fronte nella navata centrale, le due tele interne delle portelle mostrano a sinistra la Caduta di Simon Mago davanti a san Pietro, san Paolo e all’imperatore Nerone, a destra la Conversione di Saulo, capolavoro del Pordenone, e negli scomparti della cantoria le due tavole con la Natività della Vergine, lo Sposalizio della Vergine, l’Adorazione dei magi, la Fuga in Egitto e Gesù fra i dottori purtroppo molto rovinate. Tutto ciò risale al 1524.

Sugli stipiti laterali della cassa dell’organo sono dipinti i due profeti Davide e Daniele, che invece sembrano già del 1515.

Molti hanno trovato nei temi un riferimento a simpatie protestanti dei signori che forse in alcuni ci sono state, ma l’ipotesi pare poco credibile, dato il palese ed insistito richiamo alla Vergine Maria, Madre del Gesù “parlante” ai dottori.

Dopo lo spostamento in abside del coro ligneo e fino al 1929 le grandi tele stettero sulle pareti sbiancate dell’altare maggiore.

 

Approfondimento

L’organo ricollocato al posto primitivo è il rifacimento del terzo strumento, ultimato nel 1515 da Bernardino Vicentino organaro a Venezia, mentre il cassone originale è dell’intagliatore Venturino da Venezia, di cui è ben restaurato anche un monumentale armadio in sacrestia.

Un organo è documentato nel primo libro di spesa della parrocchia del 1419. Dal 1455 sono registrate le spese per organisti succedutisi fino al oggi.

L’organo del 1515 fu rimosso nel 1929 e nel 1935 un nuovo strumento fu costruito nella cappella sinistra.

La navata settentrionale

Di fronte al portale settentrionale, si colloca la pila dell’acqua santa, ascritta in passato prima al Pilacorte, poi a certo Jacopo da Spilimbergo e ora a «maestro Zorzi» (1466?).

Due altari in pietra addossati alla parete, contengono tele della scuola veneziana, una con un Battesimo di Gesù e santi Sebastiano e Lazzaro di autore ancora ignoto, entro un altare poco ornato, l’altra la Crocifissione di sant’Andrea del 1665 di Giuseppe Heinz, entro un altare del Pilacorte, ricco di bassorilievi pregni di significati e rimandi.

 

Anche nella navata settentrionale è presente un intento mariano, poiché pure questo altare è dedicato all’Immacolata Concezione di Maria. Le testina dell’archivolto rappresentano San Gioacchino, Sant’Anna e la Vergine. Nei piedistalli Giuditta e Sacrificio di ovini a destra, Sacrificio di Isacco e il Roveto ardente a sinistra.

Questo altare stava nella cappella sinistra fino al 1905, simmetricamente a quello del Crocefisso, nella cappella destra del presbiterio.

Sopra il confessionale due tele seicentesche di ignoto raffigurano San Pietro e San Paolo.

La cripta

Sul pianerottolo della scale di sinistra si guarda l’affresco di San Nicola. Nel primo dei quattro vani troviamo il sarcofago in arenaria di Valterpertoldo II di Zuccola e IV di Spilimbergo, come scritto su un lato: Valterpertoldo quarto fra i seicento creati cavalieri da Carlo Imperatore sopra il ponte Sublicio (a Roma), morì pretore a Treviso nel 1382.

Nella parte centrale si legge bene una Annunciazione piena di colore, pur se appesantita dal fondo rosso privo dell’azzurrite, in una scenografia giottesca con il Padre Eterno in alto a sinistra, come fuori campo, la colomba al centro della tenda-sipario, la Madonna giovane, bionda, di fronte all’Angelo annunziante. All’esterno, in corrispondenza, è rimasta una nicchia simile alle finestrelle laterali aperte. La primitiva finestra centrale giustifica la posizione sulla destra di una severa Madonna che allatta. Nel 1466 vennero infatti murate finestre e ciò porta a datare posteriormente l’affresco dell’Annunciazione.

 

 

Sulla parete opposta la tela di ambito veneziano (1623) raffigura Sant’Elena e i santi Carlo Borromeo, Barbara, Antonio di Padova. Sulle pareti laterali, da una parte è ben leggibile ancora un affresco fra i più antichi con Madonna in trono con il Bambino e santi martiri, che sembrerebbe strappato da una qualche parete esterna (da Santa Cecilia?) visto il tipo di degrado; dall’altra una nicchia conservava la reliquia di Santa Lucia, ora vi è posto un reliquiario con frammento della Santa Croce.

Sopra l’arcata d’ingresso una lapide ricorda i restauri eseguiti nel 1959, con rifacimento delle scale e la rinuncia dei conti al giuspatronato.

Nel vano successivo quattro volte a crociera si impiantano sul cilindro dell’unica colonna centrale e su tozze mensole laterali di pietra. Due affreschi mostrano santi benedicenti ex cathedra (il vescovo giudicava seduto). Uno occupa una un’arcata a est con Sant’Agostino inquadrato in un baldacchino dall’esile struttura archiacuta affiancato da monaci (in tonaca bianca), l’altro contro la scala, mostra un Sant’Agostino che scruta chi scende, con la barba inverdita e senza l’azzurrite nel drappo di sfondo (il verde era spesso dato ai volti dei santi di origine asiatica e africana, ma anche usato come base per i carnati).

Approfondimento

 

Nell’ultimo vano che presenta una finestra cinquecentesca, vi è l’altare in pietra, in origine tutto dipinto, con altorilievo dei Santi Leonardo, Nicola e Giovanni Battista al primo ordine, una Pietà tra la Maddalena (?) e san Giovanni al secondo ordine, e in alto un Padre Eterno benedicente. I riferimenti e la simbologia ne fanno un’illustrazione emblematica di devoluzione e riconoscenza: la sottomissione alla superiore volontà di Dio; il riferimento al dolore della Madre per la morte del Figlio e il dramma vissuto dai testimoni; l’intercessione dei santi per la liberazione; la fenice che risorge dalle fiamme a ricordare la risurrezione in analogia alla liberazione dalla prigionia; il pellicano genitore che dona il suo sangue per il figlio. Di controversa attribuzione dimostra il voto del conte Paolo che ha riscattato il figlio dalla prigionia sotto i Turchi: QUI FERRI LEONARDE VINCLA LAXAS HOC PAULUS STATUIT TIBI SACELLUM – TURCARUM MISERANDA PRAEDA PAULUS VOTORUM REUS HANC DICAVIT ARAM MCCCCLXXII (O Leonardo, che allenti le catene di ferro, questo piccolo santuario te l’ha promesso Paolo. Paolo, preda miseranda delle orde turche, ha dedicato quest’altare a scioglimento del voto 1472).